
Com’era facile prevedere, le conseguenze economiche dei diversi e prolungati periodi di confinamento, a seguito dei necessari provvedimenti volti a contenere la diffusione del virus fin dall’insorgere della pandemia, stanno producendo una crescita delle situazioni di fragilità tra le famiglie italiane.
Dopo essersi giustamente soffermati sulle difficoltà registrate nell’ambito della sfera psicologica e relazionale, con l’impossibilità di vivere ordinariamente la vita sociale e le dinamiche affettive (di pari passo con l’aumento dei casi di violenza domestica), gli studiosi cominciano a fare il punto anche sulle fragilità riguardanti l’ambito socio-economico.
In altri termini, dopo aver generato e moltiplicato fenomeni quali la “sindrome della capanna”, le non poche problematiche legate alla didattica a distanza, le fragilità psicologiche e morali di chi vive il problema della solitudine (a cominciare dagli anziani), la pandemia ha presentato il conto anche in termini di fragilità economiche, soprattutto tra i lavoratori precari, i giovani e gli stranieri.
A fornire una fotografia aggiornata e allo stesso tempo problematica è stato l’Istituto nazionale di statistica, il quale, sulla base delle stime preliminari circa la povertà assoluta in Italia per l’anno 2020, il 4 marzo scorso (in anticipo rispetto al consueto appuntamento annuale di giugno) ha pubblicato uno studio in cui emerge chiaramente come la povertà sia tornata a crescere nuovamente, azzerando sostanzialmente i miglioramenti registrati nel 2019 e raggiungendo il valore più elevato dal 2005.
Nel 2020, secondo l’Istat, l’incidenza della povertà assoluta risulta in aumento sia in termini familiari (passando dal 6,4% al 7,7%, pari a 335.000 famiglie in più) sia in termini di individui (dal 7,7% al 9,4%, con oltre 1.000.000 di persone in più). Tale incremento porta a oltre 2.000.000 il numero di famiglie italiane (pari a circa 5,6 milioni di persone) che si trova in condizioni di povertà assoluta.
Se il 2019 era stato contrassegnato da una diminuzione della povertà (tra i cali più significativi quello registrato in Sardegna, con una diminuzione del numero delle famiglie in condizione di povertà relativa, passato da 141.000 a 94.000), il 2020 registra purtroppo una ripresa con intensità elevata, che neppure la sussistenza delle misure volte a favorire un sostegno economico integrativo dei redditi familiari (si pensi, ad esempio, al Reddito di Cittadinanza o alla Pensione di Cittadinanza) è stata in grado di contrastare.
Va precisato che gli effetti socio-economici della pandemia hanno colpito tutti, seppure con intensità e in modi diversi. I dati forniti dall’Istat parlano di un aumentato rischio di povertà per le famiglie con figli e con persona di riferimento occupata (più contenuti gli effetti per i pensionati); per le famiglie composte sia da italiani sia da stranieri, ma segnatamente per questi ultimi. I giovani, poi, ancora una volta risultano essere tra le categorie più vulnerabili. In altri termini la crisi pandemica ha colpito sostanzialmente le stesse tipologie già vulnerate dalle crisi precedenti, compresa quella finanziaria.
Il rischio di povertà è aumentato in particolare al Nord Italia, un’area in cui il numero dei nuclei familiari in povertà è cresciuto di circa 218.000 unità nel corso del 2020 (pari a circa il 65% dell’incremento su scala nazionale). Tale peculiarità geografica si spiega per il fatto che proprio al Nord si concentrano i più significativi livelli occupazionali nel settore privato (nel Sud è maggiore la rilevanza degli stipendi pubblici), vale a dire quelli che hanno subito in modo pesante gli effetti del confinamento. Inoltre, essendo omogenei per territori gli importi erogati dal Reddito di Cittadinanza, il differente costo della vita rende più efficaci tali misure al Sud piuttosto che al Settentrione d’Italia. Sempre al Nord, peraltro, si concentra il maggior numero di residenti stranieri, le cui famiglie – come già rilevato – sono state colpite in modo particolare dagli effetti socio-economici della pandemia.
Raffaele Callia