Per chi ha avuto la dolorosa fortuna di visitare quel Paese e assistere alla sua inesprimibile sofferenza, ogni notizia proveniente da Haiti è come un colpo al cuore. In quel luogo di una bellezza straordinaria convivono allo stesso tempo il sorriso spensierato e l’indolenza della popolazione locale, la povertà più dura e un concentrato di catastrofi naturali, tra uragani e terremoti, e un sistema politico così instabile e corrotto da togliere ogni speranza. Una sorta di ossimoro esistenziale così ben raccontato dal celebre autore haitiano Dany Laferrière, che parla del proprio Paese come di un marchingegno mortale tra paradiso e inferno.
Il terribile terremoto del 2010
Fu il terribile terremoto del 2010, che provocò la morte di oltre 230.000 persone, a far scaturire un’azione di solidarietà internazionale senza precedenti, con un impegno significativo anche da parte della popolazione italiana.
La Conferenza Episcopale Italiana, infatti, promosse una colletta straordinaria pochi giorni dopo il sisma e furono diverse le realtà Caritas, tra quelle diocesane, le Delegazioni regionali e la stessa Caritas Italiana, a rinforzare l’aiuto attraverso fondi e progetti mirati (qui disponibile il reportage delle iniziative, 3 anni dopo il terremoto).
Fece parte di questa rete anche la Delegazione regionale Caritas della Sardegna, la quale scelse di unire tutte le offerte pervenute dalle diocesi sarde in unico progetto regionale. I sardi furono generosi, affidando alla Caritas Italiana 623.509,00 euro: una cifra che consentì alla direzione delle Suore di Maria Ausiliatrice a Croix des Bouquets, periferia della capitale Port-au-Prince (dove sono avvenuti diversi sequestri di persona in questi ultimi mesi) la ricostruzione di una scuola, inaugurata ufficialmente nel marzo del 2013. Dopo il progetto della ricostruzione della scuola, grazie alla generosità della popolazione sarda venne realizzato anche un forno comunitario, in grado di soddisfare la popolazione docente e studentesca della nuova scuola.
Il degrado della capitale
Port-au-Prince è una realtà sociale che vive in un’altra dimensione rispetto al resto del Paese. Con una popolazione di quasi 1 milione di abitanti, considerando anche l’hinterland, ai visitatori impreparati appare come un luogo caotico, in condizioni di precarietà estrema e promiscuità di ogni genere. Città povera e violenta: il giorno prima del mio arrivo per conto della Delegazione regionale Caritas della Sardegna, nel settembre 2016 (qui disponibile la cronaca della visita), nei pressi della cattedrale fu uccisa – e poi derubata – Suor Isabel Sola Macas, originaria di Barcellona; aveva 51 anni e apparteneva alla Congregazione di Gesù e Maria. La vita, a Port-au-Prince, sembrerebbe valere meno di niente: all’epoca della mia visista, ogni giovedì un missionario canadese visitava una discarica nei pressi della città, per cercare i cadaveri di quanti venivano frettolosamente abbandonati tra i rifiuti; il suo obiettivo era semplicemente quello di garantire una degna sepoltura a quei poveri resti umani.
Le Suore salesiane, come molte altre realtà della Chiesa cattolica presenti ad Haiti, sfidano quotidianamente il degrado, l’insicurezza e la disperazione che le varie bidonville presenti nella capitale offrono a vista d’occhio. Sono presenti anche a Cité Soleil, uno dei sobborghi più violenti di Port-au-Prince. Anche loro possono operare grazie alla solidarietà internazionale: aiuti che hanno bisogno di essere accompagnati adeguatamente e che, oltre a realizzare progetti, si spera possano mettere in moto dei processi di reale cambiamento, per non ingenerare una cultura che crei dipendenza.
Una solidarietà globale che, nonostante tutto, non è riuscita a divellere dal profondo le radici contradditorie e problematiche che impediscono ancora oggi, a quella popolazione, di vivere una vita degna di essere vissuta. La pandemia da Covid-19 non ha fatto altro che aggravare le già precarie condizioni di salute della popolazione locale, abbondantemente compromesse da una situazione igienica catastrofica sotto ogni profilo, determinando un ulteriore peggioramento della povertà assoluta.
Il vuoto di potere dopo l’omicidio del presidente della Repubblica
L’assassinio del presidente della Repubblica haitiana, avvenuto nei giorni scorsi, non può che accrescere la complessità di questo quadro caotico, contrassegnato negli ultimi mesi dalle notizie di frequenti sequestri di persona. “Intorno all’una della notte tra il 6 e il 7 luglio 2021 un gruppo di persone non identificate, tra cui alcune che parlavano inglese e spagnolo, ha attaccato la residenza privata del presidente della repubblica, uccidendolo”. Con queste parole il primo ministro haitiano uscente, Claude Joseph, ha dato la notizia dell’uccisione del presidente Jovenel Moïse a Port-au-Prince, 53 anni, e del ferimento di sua moglie, Martine Marie Etienne Joseph, poi trasferita in Florida per le cure necessarie. Nei giorni seguenti le forze di polizia hanno rivelato che il commando che ha ucciso il presidente era composto da 28 mercenari, di cui 26 originari della Colombia e 2 statunitensi (uno dei quali di origini haitiane).
Restano ancora poco chiare le ragioni che hanno determinato quest’azione violenta, tant’è che le spiegazioni oscillano tra l’omicidio politico, nella prospettiva di un colpo di Stato, e un regolamento di conti di matrice criminale tra gang rivali. Di sicuro, come da più parti sottolineano gli esperti di politica internazionale, niente di quanto sta accadendo ad Haiti spinge a essere ottimisti sul futuro di quel Paese.
Di un regolamento di conti parla chiaramente la folta schiera, in seno alla società civile haitiana, di oppositori politici dell’oramai defunto presidente. Le vicende legate allo scandalo riguardante l’importazione di petrolio dal Venezuela, il traffico di droga proveniente dalla Colombia e diretto (tramite Haiti) verso gli Stati Uniti, la corruzione come modus operandi all’interno delle istituzioni e delle forze di polizia, l’imperversare di gang armate dedite ai sequestri e in affari con i narcos; tutto questo, e altro ancora, hanno proiettato un’ombra ingombrante sul mandato presidenziale di Jovenel Moïse, il quale era stato eletto nell’ottobre del 2015 ma l’esito era stato annullato per presunte irregolarità, per poi essere comunque eletto l’anno seguente.
Ora, dopo la sua morte violenta, la paura di un vuoto improvviso di potere getta ancora di più nel caos questo sfortunato Paese. La sua popolazione merita certamente un destino diverso da quello cui si assiste da troppo tempo. Un destino doloroso e non del tutto spiegabile, come ha scritto il già citato Dany Laferrière: “tutte le mattine ci si imbatte in nuovi morti ammazzati (il sangue caldo ha un odore che non si scorda più) nelle viuzze anguste e fangose. E le notti sono scandite da urla e colpi d’arma da fuoco, e l’indomani viene annunciato un nuovo capo che ricomincia con le stesse promesse”.
Raffaele Callia