Per chi ha avuto il privilegio di visitare l’Ucraina in tempi di pace, come nel caso dello scrivente, vedere le immagini di devastazione e di morte di questi giorni provoca un ulteriore motivo di sgomento. Inevitabilmente, a tali immagini dolorose si sovrappongono i ricordi, l’incredulità e il senso di impotenza per quanto sta avvenendo.
I ricordi personali sono associati a un viaggio-studio effettuato nel giugno del 2006, unitamente a una delegazione composta da alcuni ricercatori dell’équipe che annualmente cura la pubblicazione del Dossier Statistico Immigrazione e da alcuni componenti del CNEL, con lo scopo di approfondire le tematiche dell’emigrazione ucraina in Italia nei luoghi d’origine. L’esperienza servì a favorire una conoscenza del fenomeno migratorio attraverso diversi contatti istituzionali. Anzitutto con i rappresentanti dei ministeri degli Affari Esteri, dell’Interno, del Lavoro, della Giustizia, della Pubblica istruzione e delle Politiche sociali, a Kiev, attraverso cui era emerso “il bisogno di stringere contatti più stretti a livello governativo per risolvere una serie di problemi” che toccavano direttamente la vita degli allora 150.000 circa cittadini ucraini residenti in Italia (oggi, senza considerare i profughi, sono all’incirca 240.000). Oltre a ciò, tale viaggio servì ad arricchire il quadro sulle problematiche emigratorie degli ucraini che chiedevano di recarsi nel nostro Paese, anche grazie all’incontro che si tenne all’Ambasciata d’Italia a Kiev, con l’ambasciatore e il console italiani dell’epoca.
Dal punto di vista ecclesiale, fra le altre cose, il ricordo va ai momenti trascorsi presso l’Università Cattolica Ucraina di L’viv, meglio conosciuta come Leopoli (una città particolarmente vivace dal punto di vista culturale), caratterizzata da un importante convegno sulla realtà e le prospettive dell’immigrazione ucraina in Italia, al quale presero parte diversi relatori locali e italiani.
Poco prima del convegno, la delegazione italiana fu ricevuta dal rettore dell’Università, il professor Borys Gudziak, il quale descrisse il dramma del popolo ucraino per le violenze subite nel corso del Novecento. Dalle parole del rettore emerse come non vi sia stata neppure una famiglia, soprattutto nella parte occidentale dell’Ucraina, a non essere toccata dalle follie del nazismo prima (furono deportati almeno 600.000 ucraini) e del comunismo poi (per “spezzare” la schiena ai contadini che rifiutavano la “collettivizzazione”, Stalin fece scaturire una terribile carestia tra il 1932 e il 1933). Di queste tragedie, vissute con dignità e saldo spirito religioso, delle pulizie etniche e degli eccessi delle ideologie del Novecento, non si è potuto parlare fino al 1988.
Fu grazie all’iniziativa di un illustre personaggio originario di Zazdrist (nell’arcidiocesi di L’viv), il cardinale Josyf Slipyi, scomparso nel 1984, nonché guida e maestro del rettore Borys Gudziak, che fu possibile dar vita all’Università Cattolica Ucraina, proprio con l’obiettivo (assolutamente lungimirante) di preparare i credenti e la società tutta alla transizione che sarebbe derivata dalla fine dell’impero sovietico. E tutto ciò molto prima dell’avvento della Perestroika.
Ancora oggi l’Università cattolica Ucraina di L’viv è un laboratorio di pluralismo. Tra studenti e docenti vi sono greco-cattolici, latini, ortodossi, ma anche molti non credenti. L’Università Cattolica Ucraina di L’viv è sempre stata libera e aperta a tutti, ma allo stesso tempo ha sempre voluto mantenere salda la propria identità cristiana. Ogni giorno, alle 12.00, si ferma l’attività universitaria per dar spazio alla preghiera: non è obbligatoria ma non è neppure un fatto privato. E il mercoledì, quando si invita la comunità, tutto il resto si ferma: niente internet, né biblioteca e nessuna attività didattica.
Ricordo che, in conclusione del nostro incontro, il rettore Gudziak raccontò un aneddoto molto significativo sullo spirito religioso del suo popolo. Per il costituendo corso di logica il suo predecessore si mise in contatto con una professoressa di filosofia, la quale, presentatasi per la consegna delle credenziali, dichiarò apertamente il proprio ateismo. “Va bene”, rispose il rettore, “lei dice di essere atea, ma io non ne sono tanto convinto”. “Sa padre”, dichiarò in seguito la docente al nuovo rettore, “non so se sono atea o credente, ma viaggiando nell’autobus mi capita spesso di pregare”.
Si spera che la guerra finisca quanto prima e che Leopoli possa mantenere questa sua caratteristica di apertura e di pluralismo che ho avuto il privilegio di apprezzare sedici anni or sono.
Raffaele Callia