«Se c’è un’azione, tra le attività degli uomini, che è opportuno intraprendere con esitazione, che anzi è opportuno evitare, scongiurare, respingere in ogni modo possibile, quella è la guerra. Nulla è più empio della guerra, nulla più sciagurato, nulla più pericoloso. Da nulla, come dalla guerra, è più difficile venire fuori e nulla è più tetro e indegno dell’essere umano, per non dire del cristiano». Con queste parole, espresse nei suoi famosi “Adagia” (oltre 800 proverbi latini da lui commentati con rigore filologico), agli inizi del XVI secolo il grande umanista Erasmo da Rotterdam esprimeva chiaramente la propria posizione nei confronti della guerra; di ogni guerra. Fra questi cita l’adagio di Publius Flavius Vegetius, un aristocratico romano del IV-V secolo, che suona ancora oggi come un monito inoppugnabile: «La guerra piace a chi non la conosce».
La guerra “empia e sciagurata” di cui parla Erasmo non è solo portatrice di violenza e distruzione, con la sua terribile conta di morti e feriti, ma è capace di provocare disastri – con il suo effetto snowball – in aree geopolitiche non toccate direttamente dal conflitto. Lo dimostrano le conseguenze della guerra attualmente più amplificata dai mezzi di informazione, vale a dire quella in Ucraina.
Si sa, infatti, come la dipendenza energetica dei Paesi europei costituisca un freno alle sanzioni imposte alla Russia per il suo intervento militare in Ucraina. Com’è altrettanto noto che il blocco della produzione agricola in Ucraina stia producendo forti instabilità nei mercati. Russia e Ucraina – giusto per ricordare qualche cifra – da sole assorbono oltre un quarto del commercio mondiale di grano, mentre il continente africano dipende letteralmente dai loro prodotti cerealicoli per il suo approvvigionamento alimentare. In proposito, si pensi che il 32% delle importazioni africane tra il 2018 e il 2020 proveniva dalla Russia e il 12% dall’Ucraina.
Siamo pertanto di fronte a uno stato di allerta per possibili carestie e crescita della povertà in alcune aree del mondo, con conseguenze inevitabili sul fronte della mobilità umana. Si prevedono infatti nuove possibili migrazioni forzate, in particolare in Africa (“migrazioni circolari”, le più consistenti) e dal Nord Africa e dal Medio Oriente verso l’Europa.
Paesi come il Libano, l’Egitto, il Sudan e la Tunisia (in cui il pane rappresenta una componente essenziale nell’alimentazione quotidiana), in gran parte dipendono dal grano russo e ucraino. Peraltro, si tratta di Paesi che non godono di condizioni floride dal punto di vista economico e sociale e in cui si registra una profonda instabilità politica. Alcuni di essi sono stati teatro delle cosiddette “primavere arabe” scoppiate una decina di anni fa proprio a partire dalle rivolte per il pane.
Per il segretario generale delle Nazioni Unite, il portoghese António Guterres, la guerra della Russia contro l’Ucraina «minaccia la quota di cibo mondiale che normalmente si riesce a fornire e a mettere a disposizione dei Paesi in via di sviluppo, in particolare dei più poveri del mondo». In Sudan, anche a causa dei raccolti scarsi, della siccità e della crisi economica, si stima che il numero di persone affette da fame acuta raddoppierà, oltrepassando l’impressionante cifra di 18 milioni entro il prossimo settembre. Di fronte a questo scenario sarà inevitabile che si riparli di nuove e più consistenti migrazioni forzate.
Si tratta di previsioni inquietanti che ci ricordano come la guerra, “empia e sciagurata” di cui parla Erasmo, è un fenomeno che mette in connessione tutti e in tutte le parti del mondo. Se proprio non si può rimanere indifferenti per questioni di coscienza certamente ci si deve preoccupare per i risvolti eminentemente pratici che toccano l’umanità, tutta l’umanità, in ogni angolo del mondo.
Raffaele Callia