“Voi che vivete sicuri/nelle vostre tiepide case,/voi che trovate tornando a sera/il cibo caldo e visi amici:/Considerate se questo è un uomo/che lavora nel fango/che non conosce pace/che lotta per mezzo pane/che muore per un sì o per un no.”
È il celeberrimo incipit di un testo breve, in versi liberi, dal titolo Shemà (che in ebraico significa “ascolta”), che apre lo struggente volume di Primo Levi Se questo è un uomo, opera in cui l’autore racconta, da sopravvissuto all’olocausto, la propria drammatica esperienza di discesa agli inferi di Monowitz e di Auschwitz.
Mi sono tornate in mente queste parole quando giovedì 29 febbraio si è saputo di un nuovo dramma che nel dramma più ampio della guerra a Gaza ha visto coinvolti innocenti palestinesi schiacciati tra terra e mare, tra le armi dell’esercito israeliano e il fanatismo di Hamas, tra la fame, le malattie, la precarietà igienica e la disperazione che impedisce di immaginare un futuro diverso dalla morte e dalla sofferenza.
Il nuovo dramma, in un dramma che ha già provocato la morte di oltre 30.000 persone in circa 5 mesi di guerra a Gaza, forse passerà alla storia come la “strage degli affamati”: la morte di oltre 100 persone fra la folla accalcatasi ad al-Rashid Street (a sud di Gaza City) per prendere gli aiuti umanitari portati dai tir. La scena è stata ripresa dai droni israeliani ed è stata trasmessa dai media internazionali; una scena quasi surreale – se non fosse drammaticamente vera – che ha fatto sembrare quei disperati come tante formiche disorientate attorno a un pezzo di pane, da accaparrarsi ad ogni costo e con il solo obiettivo di sopravvivere.
Ancora è presto per stabilire come siano andati effettivamente i fatti, anche se diversi leader politici mondiali e le stesse Nazioni Unite hanno espresso profonda disapprovazione chiedendo al più presto chiarezza sulle responsabilità. Di sicuro si sa che da sempre la disperazione e la lotta per la sopravvivenza generano caos e disordine. Così come vivere in una eterna condizione di tensione e di minaccia senza soluzione di continuità rende iper-reattivi ad ogni sollecitazione che provenga dall’esterno. Sono certamente questi gli ingredienti diabolici che hanno provocato l’ennesimo dramma nel più ampio dramma di Gaza. Una strage assurda e inconcepibile, com’è ogni strage provocata dalla guerra.
La cosiddetta “strage degli affamati”, inoltre, ha prodotto un altro esito indesiderato che si aggiunge alla morte e al ferimento di tanti innocenti: la sospensione immediata dell’ipotesi di tregua che faticosamente si stava costruendo tra Hamas e Israele fino a poche ore prima della tragedia di fine febbraio. Tutto ciò mentre la situazione umanitaria a Gaza sta divenendo ogni giorno sempre più drammatica, con scene quasi apocalittiche: un quarto della popolazione è in stato di inedia; un bambino su sei, al di sotto dei due anni, soffre di malnutrizione acuta (mentre 12.500 sono già morti a causa della guerra); folle di disperati affamati bloccano le strade e le spiagge, dove provano ad arrivare gli aiuti. Sono diventate virali le immagini che ritraggono migliaia di civili palestinesi radunatisi sulla spiaggia per tentare di raccogliere gli aiuti paracadutati da aerei giordani e che per errore sono caduti in mare: una moltitudine di disperati che, con imbarcazioni di fortuna o a nuoto, cercano di recuperare quella fonte di sopravvivenza, difendendola con bastoni e con la forza da altri disperati che lottano per la stessa ragione. Hanno fatto il giro del web anche le immagini di pagnotte impastate con la poca farina disponibile, l’erba secca e il mangime per animali; pagnotte impastate di disperazione e di lacrime che non riusciranno a sfamare tutta quella gente.
Noi che viviamo sicuri nelle tiepide case, noi che troviamo tornando a sera il cibo caldo e visi amici, consideriamo con onestà di coscienza e di intelletto se questo è davvero un uomo.
Raffaele Callia