Alan Kurdi, Loujin Ahmed Nasif e i bambini mai arrivati in salvo

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La mattina del 2 settembre di 7 anni fa, sulla spiaggia turca di Bodrun,  fu ritrovato il corpo senza vita di Alan Kurdi, un bambino curdo-siriano di tre anni. L’immagine di quel corpicino inerme riverso sulla sabbia, con ancora indosso una maglietta rossa, i pantaloncini e le scarpette ai piedi, turbò profondamente la coscienza collettiva. Se ne discusse per giorni e un po’ tutti ci scandalizzammo sopraffatti dall’emozione. Dopodiché, tutto tornò come prima.

Da quel settembre del 2015, infatti, hanno continuato a viaggiare nel Mediterraneo e a morire molte altre persone, fra cui non pochi bambini. Qualche giorno fa è stata la volta di Loujin Ahmed Nasif, un’altra bambina siriana di cui – questa volta – si è parlato per pochissimo tempo; quasi come se le nostre coscienze, troppo distratte, si stessero lentamente abituando anche alla morte tragica dei più piccoli fra i migranti.

Eppure, a maggio di quest’anno, come segnala il Rapporto dell’UNHCR Global trends, sono oltre 100 milioni le persone che risultano essere in fuga nel mondo a causa di persecuzioni, conflitti, violenze, violazioni di diritti umani o eventi che compromettono gravemente l’ordine pubblico. Ad essi si aggiungono i cosiddetti migranti ambientali, persone che fuggono da territori resi inabitabili da catastrofi “naturali” (desertificazioni, inondazioni, siccità, uragani e tifoni, avvelenamento di aria, acque e terreni) provocate dai sempre più gravi cambiamenti climatici. A questo proposito l’Internal Displacement Monitoring Centre stima che nel solo 2021 ci siano stati circa 23,7 milioni di migranti ambientali all’interno dei propri Paesi a causa di eventi meteorologici estremi.

In quest’ultimo periodo in Italia, abbandonati gli stereotipi dell’«emergenza» dei possibili «untori» in epoca di pandemia, sono tornate in auge le narrazioni mediatiche evergreen dell’immigrazione, tipiche di una politica politicante da campagna elettorale. Sono ritornati a galla gli stereotipi comunicativi delle «emergenze» sbarchi, del sovraffollamento a Lampedusa, delle possibili invasioni e della conseguente urgenza di misure di sicurezza. Insomma, un déjà vu alquanto nauseante.

È questa una retorica politica assolutamente miope, come ha ricordato recentemente Andrea Morniroli, che su questo dramma collettivo ha delle responsabilità pesanti: sia «la politica della destra e dei sovranisti che quota la paura sul mercato del consenso elettorale, sia quella dei progressisti che, pur dicendo cose di senso e contrastando teoricamente le discriminazioni e il razzismo, poi firma senza problemi, in nome della nostra sicurezza, gli accordi con i macellai libici, spesso gli stessi che gestiscono il traffico di essere umani, in una sorta di paradosso istituzionale. Facendo finta di non vedere e di non sapere delle migliaia di corpi torturati e stuprati nei centri di contenzione libici e delle migliaia di persone sfruttate, costrette a prostituirsi o ricattate giocando sugli affetti più cari».

A ricordarci che oltre la retorica delle campagne elettorali ci sono le storie, in carne e ossa, delle persone che fuggono dalla disperazione, è ancora una volta la morte di un innocente. È la fine assurda di Loujin Ahmed Nasif, la bambina siriana di quattro anni morta di sete, disidratata su un peschereccio partito dal Libano e che ha vagato per più di dieci giorni senza acqua e cibo, in una nuova e rischiosa rotta verso l’Italia apertasi in seguito ai respingimenti attuati da Cipro.

La fine di questa vita innocente è stata quasi totalmente oscurata dai media, troppo indaffarati a raccontare per giorni, e con dovizia di particolari, il lutto che ha colpito il Regno Unito.

Domenica 25 settembre celebreremo la 108ma Giornata mondiale del migrante e del Rifugiato, guidati dal messaggio del Papa dal titolo Costruire il futuro con i migranti e i rifugiati. Ed è proprio il pontefice a ricordarci che, alla luce «di quanto abbiamo appreso nelle tribolazioni degli ultimi tempi, siamo chiamati a rinnovare il nostro impegno per l’edificazione di un futuro più rispondente al progetto di Dio, di un mondo dove tutti possano vivere in pace e dignità»: anche gli Alan Kurdi e le Loujin Ahmed Nasif della nostra sventurata epoca.

Raffaele Callia

Una chiave spalanca l’orizzonte. Le botteghe esperienzali

A quali “botteghe” posso partecipare nel corso del progetto?

Il progetto ha luogo presso la Tenuta agricola Bertelli/Casa di Nazareth
in località Tallaroga – Iglesias
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STRADA IGLESIAS-VILLAMASSARGIA
(VISUALIZZA IN GOOGLE MAPS)

Per informazioni e richieste di iscrizione:
cell. dedicato: 346.4028570
e-mail dedicata: progettounachiave@gmail.com

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Sfoglia il pieghevole del progetto

Una chiave spalanca l’orizzonte. Un progetto per adolescenti tra i 12 e i 17 anni.

Il progetto si rivolge agli adolescenti di età compresa tra i 12 e i 17 anni che vivono un periodo di affaticamento psicologico dovuto o aggravatosi a causa del Covid-19. Le attività creative e l’utilizzo di diversi linguaggi espressivi puntano a risvegliare un processo introspettivo e al tempo stesso comunitario fra i partecipanti. In un contesto stimolante, affascinante e mediato dalla presenza di giovani mentori con funzioni educative, i ragazzi potranno partecipare, nel pomeriggio, alle diverse attività laboratoriali delle Botteghe esperienziali a partire dal mese di settembre 2022 e fino a marzo 2023. La partecipazione al progetto è gratuita.

La povertà educativa giovanile rappresenta la sfida che deve animare ogni servizio in ambito ecclesiale, nonché l’orizzonte a cui tendere con idee e progettualità solide e creative, secondo le tre vie indicate da Papa Francesco: “Partire dagli ultimi, custodire lo stile del Vangelo, sviluppare la creatività” (50° anniversario di Caritas italiana).

Clicca qui per approfondire l’argomento

L’assegno unico e universale: una prima valutazione

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Ampliando la platea dei beneficiari e sostituendo con una misura unica i diversi benefici preesistenti, come gli assegni familiari, il premio alla nascita, il bonus bebè e le detrazioni per i figli a carico, l’assegno unico e universale per le famiglie con figli è ormai in vigore da quasi sei mesi. Per tale ragione è possibile fare un primo bilancio di questa misura, nata per sostenere i nuclei familiari con figli, specialmente se in situazione di disagio economico.

Al 31 agosto sono state presentate 5.823.508 domande (il picco lo si è raggiunto a febbraio, con oltre 1.800.000). La maggior parte di queste è stata presentata direttamente dai cittadini (il 47,2%), il che fa ben sperare sull’alfabetizzazione informatica degli utenti e sull’accesso alle piattaforme digitali della burocrazia italiana; un altro 42,3%, invece, si è fatto assistere da un patronato.

L’assegno unico e universale è nato come misura volta a sostenere i nuclei familiari con figli, specialmente se appartenenti a famiglie con ISEE sotto i 15.000 euro. Per questo motivo è fondamentale un monitoraggio attento e costante della misura, soprattutto del rapporto tra beneficiari potenziali ed effettivi e degli importi erogati secondo le caratteristiche dei nuclei familiari. Un dato rilevante relativo ai beneficiari è proprio quello dell’ISEE (Indicatore della Situazione Economica Equivalente del nucleo familiare): uno su cinque non ha indicato il valore, perché non ha ancora completato la procedura per la sua definizione o perché supera la soglia massima di 40.000 euro, oltre il quale il beneficio è costante.

Circa il 46% dei minori appartiene a nuclei con ISEE inferiore ai 15.000 euro, a cui spetta quindi l’assegno pieno; il 23% a nuclei con ISEE superiore ai 40.000 euro (o non indicato), e che hanno ricevuto quindi l’importo minimo di legge.

A parte alcuni dati assai prevedibili – come il fatto che le regioni con più domande sono state ovviamente la Lombardia e la Campania, vale a dire le più popolose d’Italia (oltre un quarto delle domande a livello nazionale sono state presentate in queste due regioni) – dall’Osservatorio dell’INPS emerge come in Sardegna siano state presentate in tutto 141.238 domande (il 2,4% di tutte le domande a livello nazionale), con un numero di figli per i quali è stato richiesto il beneficio pari a 208.201. In Sardegna l’importo medio mensile erogato dall’INPS è di 159,00 euro: un dato superiore sia all’importo medio nazionale (145,00 euro) sia a quello relativo alla ripartizione territoriale Sud e Isole (157,00 euro).

Al 31 maggio il rapporto tra potenziali beneficiari (ovverosia tutti i minori e i giovani con meno di 21 anni economicamente a carico dei genitori) e domande presentate era intorno all’80%. Risulta più significativo nel Mezzogiorno, con Sicilia e Calabria caratterizzate dal valore più elevato (89%), mentre nel Nord questa quota è più bassa, con un minimo (73%) in Liguria.

Prendendo come riferimento la popolazione residente in Sardegna di età tra 0 e 20 anni al primo gennaio 2022 (pari a 250.328) e rapportandola al numero di figli per cui è stato richiesto il beneficio (208.201) risulta che la platea dei potenziali beneficiari (italiani e stranieri) è stata coperta per l’83,2%.

Per il momento i dati diffusi dall’INPS mostrano il buon esito della misura. Ecco perché sarebbe molto importante rendere disponibili agli studiosi informazioni più dettagliate, che permettano analisi più complesse, ovviamente nel rispetto della privacy; anche al fine di studiare la relazione tra importo dell’assegno erogato, ISEE e ingresso per nascita nel nucleo familiare di un ulteriore figlio, così da capire se l’assegno è in grado di funzionare anche come incentivo alla natalità, specialmente nelle fasce economicamente più vulnerabili della popolazione italiana.

Raffaele Callia

50 anni di obiezione per la pace

Il 15 dicembre 1972 fu approvata la legge 772, con la quale veniva introdotta in Italia il diritto all’obiezione di coscienza al servizio militare, con la possibilità di effettuare in alternativa il servizio civile.

Per rilanciare l’impegno per la pace e la solidarietà, la CNESC (Conferenza Nazionale Enti per il Servizio Civile, di cui fa parte Caritas Italiana e il network di enti del Terzo settore da decenni impegnati in questo campo) organizza il Festival Nazionale del Servizio Civile per il 9 e 10 settembre a Roma (Giardino Verano).

Saranno due giorni in cui saranno protagonisti i giovani, gli operatori degli enti di servizio civile, gli operatori volontari in servizio, insieme a personaggi della cultura, dello spettacolo e agli obiettori e ai volontari degli ultimi cinquant’anni.

Ci saranno dibattiti culturali, testimonianze e momenti d’intrattenimento teatrale e musicale. L’apertura venerdì 9 settembre dalle ore 18 è affidata all’ex calciatore della Nazionale e della Roma, obiettore di coscienza e neo-sindaco di Verona, Damiano Tommasi, insieme al già sindaco di Messina, Renato Accorinti.

Le serate sono arricchite da due spettacoli musicali: venerdì 9 settembre Coltivo una rosa bianca. Antimilitarismo e nonviolenza in Tenco, De André, Jannacci, Endrigo, Bennato, Caparezza con Enrico de Angelis (critico musicale, voce narrante), Laura Facci (cantante) e Matteo Staffoli (chitarrista) e sabato 10 settembre la tappa romana del Piotta Summer Tour 2022.

La CNESC sta promuovendo diverse iniziative a livello territoriale, con lo scopo di far riscoprire la storia del servizio civile, di valorizzare i documenti, gli archivi e le testimonianze degli obiettori e dei volontari del servizio civile nazionale; di consolidare l’attuale servizio civile universale con la messa in rete e il rafforzamento dei valori e delle pratiche che lo animano; per proiettarlo verso il futuro, con la consapevolezza che gli strumenti nonviolenti sono i più adeguati per affrontare insieme alle giovani generazioni le sfide dei conflitti armati, delle disuguaglianze sociali e della crisi climatica.

Scarica qui il programma completo dell’iniziativa.

Spettatori morbosi, indifferenti al dolore altrui

Foto ANSA

Per una società in cui si consuma pressoché quotidianamente e rapidamente la spettacolarizzazione del dolore, con appositi programmi televisivi strappalacrime e continui dibattiti alimentati da presunti esperti di storie di straordinaria atrocità, quanto è avvenuto a Civitanova Marche rimarrà per sempre come un’onta indelebile, un inaccettabile paradosso della coscienza.

Forse perché distratti da una campagna elettorale inaspettata e non particolarmente entusiasmante o perché sfiancati dal caldo umido che da diverse settimane non dà tregua (per tacere della guerra in Ucraina, passata in pochi mesi a “notizia di secondo piano”), si è quasi derubricato a fatto di ordinaria cronaca nera l’omicidio di Alika Ogorchukwu, un cittadino nigeriano barbaramente ucciso in una pubblica via della cittadina marchigiana da un trentaduenne italiano, con un passato di dipendenza da sostanze e con disturbi della personalità.

A lasciare sgomenti, come sempre accade quando si spegne una vita (qualunque vita) a causa della banalità del male, non è solo la morte violenta e assurda di una persona inerme, quanto la reazione (o meglio la non reazione) di quanti, presenti al pestaggio, non solo non sono intervenuti per interrompere l’aggressione ed evitare il peggio ma hanno persino trovato il tempo e la morbosa volontà di riprendere l’accaduto e condividerlo in rete, per poi affrettarsi ad archiviarlo tra le esperienze memorabili, seppure assolutamente ignobili.

È senza dubbio una società insana quella che, nella tranquillità del salotto di casa e tra le persone più intime, prova una commozione epidermica per le immagini dei bambini ucraini che fuggono dalla guerra o che manifesta sdegno e raccapriccio quando apprende la notizia della terribile morte per inedia di una bambina di 18 mesi, abbandonata dalla propria madre, e poi assiste personalmente alla violenza esercitata a scapito di una persona inerme (una violenza reale, non appresa in differita attraverso lo schermo televisivo) senza intervenire a fermare l’aggressore e soccorrere il malcapitato.

Inutile dire, a proposito dello spettro del razzismo che aleggia nel dibattito pubblico, che se i ruoli fossero stati invertiti (e l’aggressore fosse stato Alika Ogorchukwu) ci sarebbero state inevitabilmente manifestazioni rabbiose nelle pubbliche piazze, alimentate da una campagna elettorale che dell’immigrazione, anche in questa stagione politica, rischia di farne un uso improprio e strumentale. Ha prevalso, invece, una sostanziale indifferenza, quasi una rassegnazione alla banalità del male; perfino qualche giustificazione (fortunatamente isolata) rispetto a quanto è avvenuto, motivando il tutto con la reazione scomposta – questa la notizia che circolava nelle prime ore, poi smentita – di una persona infastidita per l’insistenza nel chiedere l’elemosina o per apprezzamenti non graditi nei confronti della propria compagna.

La verità è che i disvalori di cui troppo spesso siamo portatori inconsapevoli rischiano di trasformarci progressivamente in spettatori morbosi e irresponsabili, sostanzialmente indifferenti al dolore altrui. Se non intendiamo perdere la dignità come esseri umani bisogna non stancarsi mai di ricordarci che il male va fermato, non filmato.

Raffaele Callia

Le regioni del Mediterraneo, tra spopolamento e incendi

Mappa EFFIS degli incendi di fine luglio (2021)

Valorizzando la base dei dati del sistema europeo di informazione degli incendi boschivi (EFFIS), il 18 marzo scorso la Commissione Europea, attraverso il Joint Research Centre, ha pubblicato il “Rapporto di avanzamento sugli incendi boschivi in Europa, Medio Oriente e Nord Africa 2021”.

Dai dati di tale Rapporto, attraverso cui sono stati mappati ben 7.318 incendi in una quarantina di Paesi nel corso del 2021, nella sola Unione Europea sono andati in fumo oltre 500.000 ettari di vegetazione. Si tratta del secondo peggior dato mai registrato a livello continentale e a risentirne è stata soprattutto l’area mediterranea. Soltanto nel 2017, infatti, si erano registrati dati così rilevanti nell’Unione Europea, quando bruciò oltre 1 milione di ettari. Ad esser più colpita dagli incendi boschivi nel corso del 2021 è stata la Turchia, con oltre 206.000 ettari bruciati. A seguire l’Italia, con 159.537 ettari bruciati e il dato record di 1.422 incendi mappati dal sistema EFFIS (quasi quattro volte la media degli ultimi 13 anni).

Tra questi circa 160.000 ettari di vegetazione italiana andata in fumo ci sono anche quelli dei boschi del Montiferru, in Sardegna. Immagine simbolo di quella terribile devastazione che ha distrutto bestiame, foraggio, alberi e che per fortuna non ha provocato morti è l’olivastro millenario de Sa Tanca Manna, divorato dalle fiamme in quel terribile rogo del 2021 ma che notizie recenti rilevano sia ancora vivo: una sorta di icona naturalistica della costante resistenziale dei sardi. I danni economici patiti dalle imprese del Montiferru e della Planargia sono stanti ingenti, considerando nel complesso più di 1.300 aziende e quasi 1.800 addetti che hanno subito le conseguenze degli incendi.

Negli anni è dunque aumentata la superficie boschiva coinvolta negli incendi della regione mediterranea. Ciononostante, se si analizza nel dettaglio il dato complessivo del numero degli incendi nella riva Nord del Mediterraneo emerge una sostanziale diminuzione. In altre parole, ci troviamo di fronte a incendi meno frequenti ma decisamente più devastanti: i cosiddetti “mega-incendi”, ovverosia quelli che coprono una superficie superiore ai 1.000 ettari. A questo proposito, il citato Rapporto della Commissione Europea rileva come tale fenomeno sia strettamente connesso a un insieme combinato di fattori: i cambiamenti climatici in corso (con l’innalzamento delle temperature che rendono favorevoli gli incendi), l’incuria nella gestione delle aree boschive e l’aumento della superficie boschiva determinata in gran parte dallo spopolamento delle aree rurali. Osservando sovrapposte le mappe satellitari degli incendi boschivi proposte dal sistema EFFIS con quelle delle aree spopolate delle aree interne del Mediterraneo ci si accorge che, in molti casi, vi è una sostanziale corrispondenza; quasi a confermare la stretta relazione tra l’incremento dei mega-incendi e l’abbandono delle aree rurali, che sempre più stanno sperimentando un allontanamento dalle attività produttive connesse a quelle zone, quali l’agricoltura e la pastorizia. In Italia, ad esempio, sono più di 3.800 i comuni che hanno perso mediamente il 22% dei propri abitanti (di cui il 44% nel Mezzogiorno e nelle isole). Il solo comune di Cuglieri, particolarmente coinvolto nell’incendio dello scorso anno, nel decennio 2010-2020 è passato da circa 2.900 abitanti a meno di 2.500.

Dall’esperienza pratica di questi ultimi lustri e dalle stesse informazioni scientifiche offerte dal Rapporto della Commissione Europea risulta chiaro come il prendersi cura delle aree boschive e attuare delle politiche di contrasto allo spopolamento siano due facce della stessa medaglia. Gli incendi del 2021 e quanto sta avvenendo in quest’estate del 2022 confermano questo dato di realtà ambientale e sociale come una vera e propria urgenza.

Raffaele Callia

 

Nella diocesi di Milano il XLII Convegno nazionale delle Caritas diocesane

Dopo due anni di ritardo, causati dalla pandemia, si è riusciti finalmente a celebrare il XLII Convegno nazionale delle Caritas diocesane, presso il Centro congressi “Stella Polare” di Rho (diocesi di Milano). Con oltre 500 partecipanti (547) provenienti da tutta Italia (22 dalla Sardegna), in particolare da 165 diocesi (36 diaconi, 11 consacrati, 79 presbiteri, 15 religiosi, 7 vescovi e 399 laici, di cui 125 giovani under 35), il Convegno si è tenuto dal 20 al 23 giugno scorso, dando vita a numerose riflessioni e momenti di confronto e preghiera.

Dopo il saluto dell’arcivescovo di Milano, mons. Mario Delpini, l’introduzione del presidente della Caritas Italiana, mons. Carlo Roberto Maria Redaelli, e l’intervento del neo eletto presidente della Conferenza Episcopale Italiana, il cardinale Matteo Maria Zuppi, il Convegno è entrato subito nel vivo del lavoro che la Chiesa italiana sta compiendo nel suo cammino sinodale. Ad approfondire questo tema, con una relazione dal titolo “La Carità principio fondante del cammino sinodale”, è stato il direttore dell’Ufficio catechistico e sottosegretario della Conferenza Episcopale Italiana, mons. Valentino Bulgarelli.

Ogni mattina i lavori del convegno hanno preso avvio con la preghiera e la lectio proposta dalla pastora battista Lidia Maggi, predisponendo i partecipanti a un’attenta lettura della vocazione caritativa alla luce della Parola di Dio.

Ugualmente stimolanti le diverse testimonianze proposte: dalla lettura teologico-pastorale di mons. Pierangelo Sequeri alla sua esperienza fondativa dell’Orchestra Esagramma (straordinaria dimensione artistica di un ensemble che include persone diversamente abili); dal racconto di suor Simona Cherici, di accoglienza che interpella e suscita richiesta di aiuto per chi si prende cura degli ultimi, alla testimonianza di Chiese sorelle in Libano (con Padre Michel Abboud) e in Ucraina (con don Vyacheslav Grynevich e Tetiana Stawnichy, rispettivamente segretario generale di Caritas-Spes e presidente di Caritas Ucraina); dagli approfondimenti sulla crisi in Europa con il direttore di Avvenire (Marco Tarquinio), il direttore di Famiglia Cristiana (don Stefano Stimamiglio) e la direttrice esecutiva del War Childhood Museum (Amina Krvavac), impreziositi dalla musica di due violinisti e coniugi Ksenia Milas (russa) e Oleksandr Semchuk (ucraino); dalla esperienza di attivismo e militanza contro le mafie di Vincenzo Linarello (presidente del Gruppo cooperativo GOEL) alla testimonianza offerta da una consorella di suor Maria Laura Mainetti, assassinata a Chiavenna nel giugno del 2000 da tre ragazze e beatificata lo scorso anno.

Degni di note anche i gruppi di lavoro condotti il pomeriggio di mercoledì 22 e guidati da Chiara Giaccardi, Leonardo Becchetti ed Elena Granata. Suggestiva la messa celebrata in duomo martedì 21, con la stimolante omelia di mons. Mario Delpini sulla missione di Gesù come un’avversativa (Lc 5, 12-16).

Si è detto di una significativa presenza di giovani tra i partecipanti (125 under 35); ed è proprio ai giovani che è stata dedicata  una tavola rotonda finale con i giovani impegnati nel servizio civile e nel volontariato, coordinata da un giovane giornalista: Luca Cereda.

A tracciare le linee di prospettiva per il futuro della Caritas (non conclusioni), dopo il giro di boa dei primi 50 anni, Padre Giacomo Costa e lo stesso direttore di Caritas Italiana, don Marco Pagniello, il quale ha più volte sottolineato come anche la Caritas, che è espressione viva della Chiesa, ha bisogno di tornare a pensare e a sognare, con fantasia e vivacità, senza riproporre vecchi schemi (il “si è sempre fatto così” di cui parla spesso Papa Francesco) ma lasciandosi guidare docilmente dallo Spirito, che sempre soffia dove vuole.

Caritas diocesana di Iglesias

“Mi sta a cuore – Curare il presente per sognare il futuro”. Un progetto di Caritas Italiana per i giovani

Hai tra i 19 e i 30 anni e vorresti condividere un’esperienza di servizio insieme ai giovani da tutta Italia? Sei nel posto giusto!
Con il progetto “Mi sta a cuore – Curare il presente per sognare il futuro” hai la possibilità di candidarti per vivere un’esperienza a Roma dedicando un anno della tua vita – dall’1 ottobre 2022 – a servizio degli altri e condividendo il cammino con altri giovani. Scarica il progetto.
Per essere tra gli otto giovani che verranno selezionati a partecipare, compila il form di Google entro il 31 luglio 2022 e sarai ricontattato per un colloquio di selezione a Roma presso la sede di Caritas Italiana in via Aurelia 796 dal 6 all’8 settembre 2022.
Per maggiori informazioni puoi consultare le FAQ qui di seguito riportate oppure scrivere a segreteria@caritasiglesias.it.
NON PERDERE L’OCCASIONE! TI ASPETTIAMO!
  1. CHI PUO’ PARTECIPARE?
    Giovani di tutta Italia di età compresa tra i 19 (compiuti nel 2022) e i 30 anni (compiuti nel 2022).
  2. QUALI REQUISITI SONO RICHIESTI?
    I requisiti richiesti sono motivazione, voglia di mettersi in gioco, curiosità, disponibilità alla vita comunitaria e condivisione dei valori del progetto.
  3. POSSO CANDIDARMI SE HO GIA’ SVOLTO L’ANNO DI SERVIZIO CIVILE O L’ANNO DI VOLONTARIATO SOCIALE?
    Sì.
  4. POSSO CANDIDARMI ANCHE SE NON HO ESPERIENZA DI VOLONTARIATO E NON CONOSCO IL MONDO CARITAS?
    Sì.
  5. QUANTO DURA IL PROGETTO?
    Il progetto partirà il 1° ottobre 2022 e avrà durata di 12 mesi.
  6. DOVE SARÀ LA SEDE DEL PROGETTO?
    Ai partecipanti chiediamo di trasferirsi a Roma per un anno e di vivere l’esperienza di vita comunitaria presso un’ala indipendente dell’istituto delle Suore Figlie della Carità (via Francesco Albergotti, 75) da gestire in autonomia.
  7. COME MI MANTENGO ECONOMICAMENTE PER TUTTTA LA DURATA DEL PROGETTO?
    Le spese di vitto e alloggio sono a carico del progetto e, in aggiunta, ai partecipanti sarà riconosciuto un rimborso spese mensile.
  8. COSA FARÒ CONCRETAMENTE?
    La settimana sarà scandita dal servizio presso gli uffici di Caritas Italiana, a Roma, in via Aurelia 796, e dal servizio concreto verso gli “ultimi” – e non solo – presso i luoghi della città di Roma che saranno individuati insieme ai giovani, una volta arrivati e ascoltati i loro desideri.
  9. PERCHÉ DOVREI CANDIDARMI A PARTECIPARE?
    Crediamo che questa esperienza possa essere, se vissuta bene, altamente formativa per conoscersi, crescere, condividere e costruire da protagonisti il proprio presente e futuro.

La presenza dei detenuti stranieri nelle strutture penitenziarie della Sardegna

Photo by Matthew Ansley

Il servizio svolto all’interno e all’esterno del mondo carcerario da parte delle comunità cristiane (cappellani, volontari delle Caritas, ecc.) pone in luce l’esistenza di una realtà sofferta e complessa, come ci ricordano di tanto in tanto anche le cronache giornalistiche, in particolare quando si apprende dolorosamente della difficile condizione della vita carceraria o persino di qualche detenuto che si toglie la vita.
Peraltro, queste difficoltà e complessità si amplificano quando i detenuti provengono da Paesi diversi dal nostro. I detenuti stranieri, infatti, oltre alle consuete difficoltà tipiche di chi vive una condizione della limitazione della libertà personale, manifestano sovente l’assenza di reti relazionali significative con l’esterno; alcune volte subiscono ulteriori discriminazioni all’interno delle strutture detentive; trascorrono i giorni in condizioni di reale indigenza; inoltre, vivono sulla propria pelle la minaccia incombente di una legislazione riguardante il permesso di soggiorno che, una volta usciti dal carcere, rischia di porli in una condizione di illegalità non sanabile in poco tempo.
Stando ai dati del Ministero della Giustizia, al maggio del 2022, dei 2.011 detenuti reclusi nelle strutture penitenziarie della Sardegna 426 sono di nazionalità non italiana: una quota pari al 21,2%. Si tratta di una presenza concentrata per lo più nelle strutture di Onanì-Mamone (ove gli stranieri assorbono il 66% delle persone recluse), Arbus-Is Arenas (64,5%) e Isili (ove la metà della popolazione carceraria è straniera). Risulta minoritaria, ma comunque significativa, la percentuale dei detenuti stranieri presente nelle strutture penitenziarie di Sassari-Bancali (poco più di un quarto, con una quota pari al 27,5%) e di Cagliari-Uta (16,6%).
La maggior parte dei detenuti stranieri proviene dal continente africano (dai soli Paesi del Maghreb una quota pari al 40,8%); in particolare dal Marocco (105 su un totale di 426 detenuti stranieri), dalla Nigeria (51), dalla Tunisia (41), dall’Algeria (28), dal Gambia (17), dal Senegal (16), dall’Egitto (12) e dal Ghana (5).
Tra i detenuti provenienti dal continente europeo: i romeni (34), gli albanesi (25), i bosniaci (8), gli ucraini (7) e i polacchi (4). Sono presenti anche detenuti provenienti dalla Siria (7), dall’India (5), dal Pakistan (4) e dalla Cina (4).
Della condizione dei detenuti stranieri reclusi nelle strutture penitenziarie della Sardegna si occupò anche una ricerca condotta dalla Delegazione regionale della Caritas, pubblicata nel 2015 col titolo “Caritas: dentro e fuori dal carcere. Indagine sulla popolazione straniera detenuta negli istituti di pena della Sardegna”.
I detenuti stranieri incontrati dagli operatori delle Caritas durante la ricerca furono più di 300 (di cui solo 6 di genere femminile). La somministrazione dei questionari avvenne in alcune delle strutture penitenziarie dell’epoca: Cagliari, Iglesias, Isili, Massama, Nuoro, Onanì e Tempio-Pausania. Da quella ricerca emergeva come dall’Africa provenisse la maggior parte dei detenuti intervistati (più di uno su quattro nato in Marocco).
In diversi casi i detenuti stranieri intervistati dichiararono di non essere in possesso del permesso di soggiorno prima della reclusione: quasi sei su dieci. Tale problema, spesso sottovalutato, influenza in maniera determinante le vicende degli stranieri. Le richieste emerse durante i colloqui furono molteplici, intercettando problematiche quali: la modalità per la regolarizzazione e per il rinnovo del permesso di soggiorno; le norme che regolano l’espulsione e l’estradizione; le possibilità e modalità di accesso a misure alternative; il rinnovo di documenti presso l’autorità consolare del paese d’origine; le modalità per ottenere il permesso di contattare i familiari.
Per i detenuti stranieri assume grande rilevanza il ruolo assunto dai mediatori linguistici e culturali. Il mediatore, ad esempio, aiuta i detenuti a leggere e capire i documenti processuali e le lettere degli avvocati, a comprendere le modalità per ottenere indumenti e altri effetti personali, per svolgere lavori interni all’Istituto carcerario dove stanno scontando la pena, per iscriversi a corsi professionali e scolastici. Si tratta di un ponte con il mondo esterno e con un futuro di redenzione che è spesso difficile intravedere stando all’interno di un’istituzione totale come il carcere.

Raffaele Callia