Spettatori morbosi, indifferenti al dolore altrui

Foto ANSA

Per una società in cui si consuma pressoché quotidianamente e rapidamente la spettacolarizzazione del dolore, con appositi programmi televisivi strappalacrime e continui dibattiti alimentati da presunti esperti di storie di straordinaria atrocità, quanto è avvenuto a Civitanova Marche rimarrà per sempre come un’onta indelebile, un inaccettabile paradosso della coscienza.

Forse perché distratti da una campagna elettorale inaspettata e non particolarmente entusiasmante o perché sfiancati dal caldo umido che da diverse settimane non dà tregua (per tacere della guerra in Ucraina, passata in pochi mesi a “notizia di secondo piano”), si è quasi derubricato a fatto di ordinaria cronaca nera l’omicidio di Alika Ogorchukwu, un cittadino nigeriano barbaramente ucciso in una pubblica via della cittadina marchigiana da un trentaduenne italiano, con un passato di dipendenza da sostanze e con disturbi della personalità.

A lasciare sgomenti, come sempre accade quando si spegne una vita (qualunque vita) a causa della banalità del male, non è solo la morte violenta e assurda di una persona inerme, quanto la reazione (o meglio la non reazione) di quanti, presenti al pestaggio, non solo non sono intervenuti per interrompere l’aggressione ed evitare il peggio ma hanno persino trovato il tempo e la morbosa volontà di riprendere l’accaduto e condividerlo in rete, per poi affrettarsi ad archiviarlo tra le esperienze memorabili, seppure assolutamente ignobili.

È senza dubbio una società insana quella che, nella tranquillità del salotto di casa e tra le persone più intime, prova una commozione epidermica per le immagini dei bambini ucraini che fuggono dalla guerra o che manifesta sdegno e raccapriccio quando apprende la notizia della terribile morte per inedia di una bambina di 18 mesi, abbandonata dalla propria madre, e poi assiste personalmente alla violenza esercitata a scapito di una persona inerme (una violenza reale, non appresa in differita attraverso lo schermo televisivo) senza intervenire a fermare l’aggressore e soccorrere il malcapitato.

Inutile dire, a proposito dello spettro del razzismo che aleggia nel dibattito pubblico, che se i ruoli fossero stati invertiti (e l’aggressore fosse stato Alika Ogorchukwu) ci sarebbero state inevitabilmente manifestazioni rabbiose nelle pubbliche piazze, alimentate da una campagna elettorale che dell’immigrazione, anche in questa stagione politica, rischia di farne un uso improprio e strumentale. Ha prevalso, invece, una sostanziale indifferenza, quasi una rassegnazione alla banalità del male; perfino qualche giustificazione (fortunatamente isolata) rispetto a quanto è avvenuto, motivando il tutto con la reazione scomposta – questa la notizia che circolava nelle prime ore, poi smentita – di una persona infastidita per l’insistenza nel chiedere l’elemosina o per apprezzamenti non graditi nei confronti della propria compagna.

La verità è che i disvalori di cui troppo spesso siamo portatori inconsapevoli rischiano di trasformarci progressivamente in spettatori morbosi e irresponsabili, sostanzialmente indifferenti al dolore altrui. Se non intendiamo perdere la dignità come esseri umani bisogna non stancarsi mai di ricordarci che il male va fermato, non filmato.

Raffaele Callia

Le regioni del Mediterraneo, tra spopolamento e incendi

Mappa EFFIS degli incendi di fine luglio (2021)

Valorizzando la base dei dati del sistema europeo di informazione degli incendi boschivi (EFFIS), il 18 marzo scorso la Commissione Europea, attraverso il Joint Research Centre, ha pubblicato il “Rapporto di avanzamento sugli incendi boschivi in Europa, Medio Oriente e Nord Africa 2021”.

Dai dati di tale Rapporto, attraverso cui sono stati mappati ben 7.318 incendi in una quarantina di Paesi nel corso del 2021, nella sola Unione Europea sono andati in fumo oltre 500.000 ettari di vegetazione. Si tratta del secondo peggior dato mai registrato a livello continentale e a risentirne è stata soprattutto l’area mediterranea. Soltanto nel 2017, infatti, si erano registrati dati così rilevanti nell’Unione Europea, quando bruciò oltre 1 milione di ettari. Ad esser più colpita dagli incendi boschivi nel corso del 2021 è stata la Turchia, con oltre 206.000 ettari bruciati. A seguire l’Italia, con 159.537 ettari bruciati e il dato record di 1.422 incendi mappati dal sistema EFFIS (quasi quattro volte la media degli ultimi 13 anni).

Tra questi circa 160.000 ettari di vegetazione italiana andata in fumo ci sono anche quelli dei boschi del Montiferru, in Sardegna. Immagine simbolo di quella terribile devastazione che ha distrutto bestiame, foraggio, alberi e che per fortuna non ha provocato morti è l’olivastro millenario de Sa Tanca Manna, divorato dalle fiamme in quel terribile rogo del 2021 ma che notizie recenti rilevano sia ancora vivo: una sorta di icona naturalistica della costante resistenziale dei sardi. I danni economici patiti dalle imprese del Montiferru e della Planargia sono stanti ingenti, considerando nel complesso più di 1.300 aziende e quasi 1.800 addetti che hanno subito le conseguenze degli incendi.

Negli anni è dunque aumentata la superficie boschiva coinvolta negli incendi della regione mediterranea. Ciononostante, se si analizza nel dettaglio il dato complessivo del numero degli incendi nella riva Nord del Mediterraneo emerge una sostanziale diminuzione. In altre parole, ci troviamo di fronte a incendi meno frequenti ma decisamente più devastanti: i cosiddetti “mega-incendi”, ovverosia quelli che coprono una superficie superiore ai 1.000 ettari. A questo proposito, il citato Rapporto della Commissione Europea rileva come tale fenomeno sia strettamente connesso a un insieme combinato di fattori: i cambiamenti climatici in corso (con l’innalzamento delle temperature che rendono favorevoli gli incendi), l’incuria nella gestione delle aree boschive e l’aumento della superficie boschiva determinata in gran parte dallo spopolamento delle aree rurali. Osservando sovrapposte le mappe satellitari degli incendi boschivi proposte dal sistema EFFIS con quelle delle aree spopolate delle aree interne del Mediterraneo ci si accorge che, in molti casi, vi è una sostanziale corrispondenza; quasi a confermare la stretta relazione tra l’incremento dei mega-incendi e l’abbandono delle aree rurali, che sempre più stanno sperimentando un allontanamento dalle attività produttive connesse a quelle zone, quali l’agricoltura e la pastorizia. In Italia, ad esempio, sono più di 3.800 i comuni che hanno perso mediamente il 22% dei propri abitanti (di cui il 44% nel Mezzogiorno e nelle isole). Il solo comune di Cuglieri, particolarmente coinvolto nell’incendio dello scorso anno, nel decennio 2010-2020 è passato da circa 2.900 abitanti a meno di 2.500.

Dall’esperienza pratica di questi ultimi lustri e dalle stesse informazioni scientifiche offerte dal Rapporto della Commissione Europea risulta chiaro come il prendersi cura delle aree boschive e attuare delle politiche di contrasto allo spopolamento siano due facce della stessa medaglia. Gli incendi del 2021 e quanto sta avvenendo in quest’estate del 2022 confermano questo dato di realtà ambientale e sociale come una vera e propria urgenza.

Raffaele Callia

 

Nella diocesi di Milano il XLII Convegno nazionale delle Caritas diocesane

Dopo due anni di ritardo, causati dalla pandemia, si è riusciti finalmente a celebrare il XLII Convegno nazionale delle Caritas diocesane, presso il Centro congressi “Stella Polare” di Rho (diocesi di Milano). Con oltre 500 partecipanti (547) provenienti da tutta Italia (22 dalla Sardegna), in particolare da 165 diocesi (36 diaconi, 11 consacrati, 79 presbiteri, 15 religiosi, 7 vescovi e 399 laici, di cui 125 giovani under 35), il Convegno si è tenuto dal 20 al 23 giugno scorso, dando vita a numerose riflessioni e momenti di confronto e preghiera.

Dopo il saluto dell’arcivescovo di Milano, mons. Mario Delpini, l’introduzione del presidente della Caritas Italiana, mons. Carlo Roberto Maria Redaelli, e l’intervento del neo eletto presidente della Conferenza Episcopale Italiana, il cardinale Matteo Maria Zuppi, il Convegno è entrato subito nel vivo del lavoro che la Chiesa italiana sta compiendo nel suo cammino sinodale. Ad approfondire questo tema, con una relazione dal titolo “La Carità principio fondante del cammino sinodale”, è stato il direttore dell’Ufficio catechistico e sottosegretario della Conferenza Episcopale Italiana, mons. Valentino Bulgarelli.

Ogni mattina i lavori del convegno hanno preso avvio con la preghiera e la lectio proposta dalla pastora battista Lidia Maggi, predisponendo i partecipanti a un’attenta lettura della vocazione caritativa alla luce della Parola di Dio.

Ugualmente stimolanti le diverse testimonianze proposte: dalla lettura teologico-pastorale di mons. Pierangelo Sequeri alla sua esperienza fondativa dell’Orchestra Esagramma (straordinaria dimensione artistica di un ensemble che include persone diversamente abili); dal racconto di suor Simona Cherici, di accoglienza che interpella e suscita richiesta di aiuto per chi si prende cura degli ultimi, alla testimonianza di Chiese sorelle in Libano (con Padre Michel Abboud) e in Ucraina (con don Vyacheslav Grynevich e Tetiana Stawnichy, rispettivamente segretario generale di Caritas-Spes e presidente di Caritas Ucraina); dagli approfondimenti sulla crisi in Europa con il direttore di Avvenire (Marco Tarquinio), il direttore di Famiglia Cristiana (don Stefano Stimamiglio) e la direttrice esecutiva del War Childhood Museum (Amina Krvavac), impreziositi dalla musica di due violinisti e coniugi Ksenia Milas (russa) e Oleksandr Semchuk (ucraino); dalla esperienza di attivismo e militanza contro le mafie di Vincenzo Linarello (presidente del Gruppo cooperativo GOEL) alla testimonianza offerta da una consorella di suor Maria Laura Mainetti, assassinata a Chiavenna nel giugno del 2000 da tre ragazze e beatificata lo scorso anno.

Degni di note anche i gruppi di lavoro condotti il pomeriggio di mercoledì 22 e guidati da Chiara Giaccardi, Leonardo Becchetti ed Elena Granata. Suggestiva la messa celebrata in duomo martedì 21, con la stimolante omelia di mons. Mario Delpini sulla missione di Gesù come un’avversativa (Lc 5, 12-16).

Si è detto di una significativa presenza di giovani tra i partecipanti (125 under 35); ed è proprio ai giovani che è stata dedicata  una tavola rotonda finale con i giovani impegnati nel servizio civile e nel volontariato, coordinata da un giovane giornalista: Luca Cereda.

A tracciare le linee di prospettiva per il futuro della Caritas (non conclusioni), dopo il giro di boa dei primi 50 anni, Padre Giacomo Costa e lo stesso direttore di Caritas Italiana, don Marco Pagniello, il quale ha più volte sottolineato come anche la Caritas, che è espressione viva della Chiesa, ha bisogno di tornare a pensare e a sognare, con fantasia e vivacità, senza riproporre vecchi schemi (il “si è sempre fatto così” di cui parla spesso Papa Francesco) ma lasciandosi guidare docilmente dallo Spirito, che sempre soffia dove vuole.

Caritas diocesana di Iglesias

“Mi sta a cuore – Curare il presente per sognare il futuro”. Un progetto di Caritas Italiana per i giovani

Hai tra i 19 e i 30 anni e vorresti condividere un’esperienza di servizio insieme ai giovani da tutta Italia? Sei nel posto giusto!
Con il progetto “Mi sta a cuore – Curare il presente per sognare il futuro” hai la possibilità di candidarti per vivere un’esperienza a Roma dedicando un anno della tua vita – dall’1 ottobre 2022 – a servizio degli altri e condividendo il cammino con altri giovani. Scarica il progetto.
Per essere tra gli otto giovani che verranno selezionati a partecipare, compila il form di Google entro il 31 luglio 2022 e sarai ricontattato per un colloquio di selezione a Roma presso la sede di Caritas Italiana in via Aurelia 796 dal 6 all’8 settembre 2022.
Per maggiori informazioni puoi consultare le FAQ qui di seguito riportate oppure scrivere a segreteria@caritasiglesias.it.
NON PERDERE L’OCCASIONE! TI ASPETTIAMO!
  1. CHI PUO’ PARTECIPARE?
    Giovani di tutta Italia di età compresa tra i 19 (compiuti nel 2022) e i 30 anni (compiuti nel 2022).
  2. QUALI REQUISITI SONO RICHIESTI?
    I requisiti richiesti sono motivazione, voglia di mettersi in gioco, curiosità, disponibilità alla vita comunitaria e condivisione dei valori del progetto.
  3. POSSO CANDIDARMI SE HO GIA’ SVOLTO L’ANNO DI SERVIZIO CIVILE O L’ANNO DI VOLONTARIATO SOCIALE?
    Sì.
  4. POSSO CANDIDARMI ANCHE SE NON HO ESPERIENZA DI VOLONTARIATO E NON CONOSCO IL MONDO CARITAS?
    Sì.
  5. QUANTO DURA IL PROGETTO?
    Il progetto partirà il 1° ottobre 2022 e avrà durata di 12 mesi.
  6. DOVE SARÀ LA SEDE DEL PROGETTO?
    Ai partecipanti chiediamo di trasferirsi a Roma per un anno e di vivere l’esperienza di vita comunitaria presso un’ala indipendente dell’istituto delle Suore Figlie della Carità (via Francesco Albergotti, 75) da gestire in autonomia.
  7. COME MI MANTENGO ECONOMICAMENTE PER TUTTTA LA DURATA DEL PROGETTO?
    Le spese di vitto e alloggio sono a carico del progetto e, in aggiunta, ai partecipanti sarà riconosciuto un rimborso spese mensile.
  8. COSA FARÒ CONCRETAMENTE?
    La settimana sarà scandita dal servizio presso gli uffici di Caritas Italiana, a Roma, in via Aurelia 796, e dal servizio concreto verso gli “ultimi” – e non solo – presso i luoghi della città di Roma che saranno individuati insieme ai giovani, una volta arrivati e ascoltati i loro desideri.
  9. PERCHÉ DOVREI CANDIDARMI A PARTECIPARE?
    Crediamo che questa esperienza possa essere, se vissuta bene, altamente formativa per conoscersi, crescere, condividere e costruire da protagonisti il proprio presente e futuro.

La presenza dei detenuti stranieri nelle strutture penitenziarie della Sardegna

Photo by Matthew Ansley

Il servizio svolto all’interno e all’esterno del mondo carcerario da parte delle comunità cristiane (cappellani, volontari delle Caritas, ecc.) pone in luce l’esistenza di una realtà sofferta e complessa, come ci ricordano di tanto in tanto anche le cronache giornalistiche, in particolare quando si apprende dolorosamente della difficile condizione della vita carceraria o persino di qualche detenuto che si toglie la vita.
Peraltro, queste difficoltà e complessità si amplificano quando i detenuti provengono da Paesi diversi dal nostro. I detenuti stranieri, infatti, oltre alle consuete difficoltà tipiche di chi vive una condizione della limitazione della libertà personale, manifestano sovente l’assenza di reti relazionali significative con l’esterno; alcune volte subiscono ulteriori discriminazioni all’interno delle strutture detentive; trascorrono i giorni in condizioni di reale indigenza; inoltre, vivono sulla propria pelle la minaccia incombente di una legislazione riguardante il permesso di soggiorno che, una volta usciti dal carcere, rischia di porli in una condizione di illegalità non sanabile in poco tempo.
Stando ai dati del Ministero della Giustizia, al maggio del 2022, dei 2.011 detenuti reclusi nelle strutture penitenziarie della Sardegna 426 sono di nazionalità non italiana: una quota pari al 21,2%. Si tratta di una presenza concentrata per lo più nelle strutture di Onanì-Mamone (ove gli stranieri assorbono il 66% delle persone recluse), Arbus-Is Arenas (64,5%) e Isili (ove la metà della popolazione carceraria è straniera). Risulta minoritaria, ma comunque significativa, la percentuale dei detenuti stranieri presente nelle strutture penitenziarie di Sassari-Bancali (poco più di un quarto, con una quota pari al 27,5%) e di Cagliari-Uta (16,6%).
La maggior parte dei detenuti stranieri proviene dal continente africano (dai soli Paesi del Maghreb una quota pari al 40,8%); in particolare dal Marocco (105 su un totale di 426 detenuti stranieri), dalla Nigeria (51), dalla Tunisia (41), dall’Algeria (28), dal Gambia (17), dal Senegal (16), dall’Egitto (12) e dal Ghana (5).
Tra i detenuti provenienti dal continente europeo: i romeni (34), gli albanesi (25), i bosniaci (8), gli ucraini (7) e i polacchi (4). Sono presenti anche detenuti provenienti dalla Siria (7), dall’India (5), dal Pakistan (4) e dalla Cina (4).
Della condizione dei detenuti stranieri reclusi nelle strutture penitenziarie della Sardegna si occupò anche una ricerca condotta dalla Delegazione regionale della Caritas, pubblicata nel 2015 col titolo “Caritas: dentro e fuori dal carcere. Indagine sulla popolazione straniera detenuta negli istituti di pena della Sardegna”.
I detenuti stranieri incontrati dagli operatori delle Caritas durante la ricerca furono più di 300 (di cui solo 6 di genere femminile). La somministrazione dei questionari avvenne in alcune delle strutture penitenziarie dell’epoca: Cagliari, Iglesias, Isili, Massama, Nuoro, Onanì e Tempio-Pausania. Da quella ricerca emergeva come dall’Africa provenisse la maggior parte dei detenuti intervistati (più di uno su quattro nato in Marocco).
In diversi casi i detenuti stranieri intervistati dichiararono di non essere in possesso del permesso di soggiorno prima della reclusione: quasi sei su dieci. Tale problema, spesso sottovalutato, influenza in maniera determinante le vicende degli stranieri. Le richieste emerse durante i colloqui furono molteplici, intercettando problematiche quali: la modalità per la regolarizzazione e per il rinnovo del permesso di soggiorno; le norme che regolano l’espulsione e l’estradizione; le possibilità e modalità di accesso a misure alternative; il rinnovo di documenti presso l’autorità consolare del paese d’origine; le modalità per ottenere il permesso di contattare i familiari.
Per i detenuti stranieri assume grande rilevanza il ruolo assunto dai mediatori linguistici e culturali. Il mediatore, ad esempio, aiuta i detenuti a leggere e capire i documenti processuali e le lettere degli avvocati, a comprendere le modalità per ottenere indumenti e altri effetti personali, per svolgere lavori interni all’Istituto carcerario dove stanno scontando la pena, per iscriversi a corsi professionali e scolastici. Si tratta di un ponte con il mondo esterno e con un futuro di redenzione che è spesso difficile intravedere stando all’interno di un’istituzione totale come il carcere.

Raffaele Callia

Quale coscienza sociale di fronte al cambiamento climatico?

Photo by Chris LeBoutillier

«Esiste un consenso scientifico molto consistente che indica che siamo in presenza di un preoccupante riscaldamento del sistema climatico. Negli ultimi decenni, tale riscaldamento è stato accompagnato dal costante innalzamento del livello del mare, e inoltre è difficile non metterlo in relazione con l’aumento degli eventi meteorologici estremi, a prescindere dal fatto che non si possa attribuire una causa scientificamente determinabile ad ogni fenomeno particolare. L’umanità è chiamata a prendere coscienza della necessità di cambiamenti di stili di vita, di produzione e di consumo, per combattere questo riscaldamento o, almeno, le cause umane che lo producono o lo accentuano».

Ad esprimersi in questi termini è l’Enciclica Laudato si’ di Papa Francesco, al numero 23, dopo averci ricordato nello stesso punto che «il clima è un bene comune, di tutti e per tutti». È pur vero che in questi ultimi anni, nell’opinione pubblica, è cresciuta una certa sensibilità sui temi del cambiamento climatico e del riscaldamento globale. Si è nel complesso consapevoli che la virulenza di eventi quali tifoni, tornado e alluvioni non è più relegata alle sole zone tropicali, così com’è cresciuta la preoccupazione per i prolungati periodi di siccità e per l’innalzamento delle temperature medie, che anticipano l’avvento della stagione calda e la prolungano in modo indefinito. Eppure, sembrerebbe che questa rinnovata sensibilità non riesca ancora a tradursi in un effettivo sostegno alle politiche che pongano la questione ambientale come tema centrale dell’ecologia integrale.

Su queste tematiche la sociologa Raya Muttarak (dal dicembre dello scorso anno docente di demografia all’Università di Bologna ed esperta di percezione del cambiamento climatico, disuguaglianza sociale, salute e migrazione) ha pubblicato recentemente uno studio in cui si pone in evidenza la connessione esistente tra comportamenti elettorali ed eventi climatici estremi. Fra gli esiti più significativi di tale studio emerge come una delle strozzature più rilevanti che impediscono la riduzione dei cambiamenti climatici è proprio di natura politica. I costi immediati, i sacrifici e i tagli necessari a ridurre le emissioni di carbonio, infatti, comporterebbero un elevato prezzo in termini di consenso elettorale. Questo significa che, pur disponendo della conoscenza e delle tecnologie necessarie per contrastare il cambiamento climatico, non si è disposti a suscitare il dissenso dell’elettorato (con la conseguente perdita di potere) che inevitabilmente ne deriverebbe, tenuto conto dei necessari sacrifici in termini di cambiamento radicale degli stili di vita.

Altre indagini sul tema mostrano come soprattutto i cittadini europei, anche dal punto di vista semantico, siano preoccupati più nello specifico dal “riscaldamento globale” che dai “cambiamenti climatici” in senso lato. Termini quali “anomalie delle temperature”, “episodi di calore” ed “episodi di siccità” inquietano molto di più l’elettore medio europeo  rispetto a una generica preoccupazione sul cambiamento del clima. Come ha posto in rilievo la rivista Neodemos, in un articolo del 24 maggio scorso, «maggiore è il numero di giorni di caldo fuori stagione (rispetto alla media del periodo 1971-2000) verificatosi in una determinata regione durante l’anno che ha preceduto una consultazione elettorale o un’elezione europea, maggiore è il numero di persone che in quell’area si sono dichiarate preoccupate per l’ambiente e più alta la quota di voti incassati dai partiti ambientalisti. Lo stesso effetto non si registra nel caso di anomalie negative di temperatura, come ondate di freddo, lunghi periodi di pioggia e alluvioni».

Gli esperti ci ricordano che se non si metteranno in pratica azioni concrete di contrasto al riscaldamento globale, attraverso la riduzione delle emissioni di carbonio, nei prossimi decenni l’umanità dovrà fare i conti con fenomeni metereologici sempre più estremi. L’appello è ad assumere ciascuno quote di responsabilità (a livello personale e collettivo) nel cambiamento degli stili di vita, di produzione, di scambio, di consumo, di trasporto, ecc. Un cambiamento, dunque, decisamente radicale.

A tale riguardo, l’Enciclica Laudato si’ ci richiama alle radici etiche e spirituali dei problemi ambientali, invitandoci «a cercare soluzioni non solo nella tecnica, ma anche in un cambiamento dell’essere umano, perché altrimenti affronteremo soltanto i sintomi» e a passare «dal consumo al sacrificio, dall’avidità alla generosità, dallo spreco alla capacità di condividere».

Raffaele Callia

Carestie e mobilità umana, tra i possibili effetti della guerra in Ucraina

Photo by Marek Studzinski

«Se c’è un’azione, tra le attività degli uomini, che è opportuno intraprendere con esitazione, che anzi è opportuno evitare, scongiurare, respingere in ogni modo possibile, quella è la guerra. Nulla è più empio della guerra, nulla più sciagurato, nulla più pericoloso. Da nulla, come dalla guerra, è più difficile venire fuori e nulla è più tetro e indegno dell’essere umano, per non dire del cristiano». Con queste parole, espresse nei suoi famosi “Adagia” (oltre 800 proverbi latini da lui commentati con rigore filologico), agli inizi del XVI secolo il grande umanista Erasmo da Rotterdam esprimeva chiaramente la propria posizione nei confronti della guerra; di ogni guerra. Fra questi cita l’adagio di Publius Flavius Vegetius, un aristocratico romano del IV-V secolo, che suona ancora oggi come un monito inoppugnabile: «La guerra piace a chi non la conosce».

La guerra “empia e sciagurata” di cui parla Erasmo non è solo portatrice di violenza e distruzione, con la sua terribile conta di morti e feriti, ma è capace di provocare disastri – con il suo effetto snowball – in aree geopolitiche non toccate direttamente dal conflitto. Lo dimostrano le conseguenze della guerra attualmente più amplificata dai mezzi di informazione, vale a dire quella in Ucraina.

Si sa, infatti, come la dipendenza energetica dei Paesi europei costituisca un freno alle sanzioni imposte alla Russia per il suo intervento militare in Ucraina. Com’è altrettanto noto che il blocco della produzione agricola in Ucraina stia producendo forti instabilità nei mercati. Russia e Ucraina – giusto per ricordare qualche cifra – da sole assorbono oltre un quarto del commercio mondiale di grano, mentre il continente africano dipende letteralmente dai loro prodotti cerealicoli per il suo approvvigionamento alimentare. In proposito, si pensi che il 32% delle importazioni africane tra il 2018 e il 2020 proveniva dalla Russia e il 12% dall’Ucraina.

Siamo pertanto di fronte a uno stato di allerta per possibili carestie e crescita della povertà in alcune aree del mondo, con conseguenze inevitabili sul fronte della mobilità umana. Si prevedono infatti nuove possibili migrazioni forzate, in particolare in Africa (“migrazioni circolari”, le più consistenti) e dal Nord Africa e dal Medio Oriente verso l’Europa.

Paesi come il Libano, l’Egitto, il Sudan e la Tunisia (in cui il pane rappresenta una componente essenziale nell’alimentazione quotidiana), in gran parte dipendono dal grano russo e ucraino. Peraltro, si tratta di Paesi che non godono di condizioni floride dal punto di vista economico e sociale e in cui si registra una profonda instabilità politica. Alcuni di essi sono stati teatro delle cosiddette “primavere arabe” scoppiate una decina di anni fa proprio a partire dalle rivolte per il pane.

Per il segretario generale delle Nazioni Unite, il portoghese António Guterres, la guerra della Russia contro l’Ucraina «minaccia la quota di cibo mondiale che normalmente si riesce a fornire e a mettere a disposizione dei Paesi in via di sviluppo, in particolare dei più poveri del mondo». In Sudan, anche a causa dei raccolti scarsi, della siccità e della crisi economica, si stima che il numero di persone affette da fame acuta raddoppierà, oltrepassando l’impressionante cifra di 18 milioni entro il prossimo settembre. Di fronte a questo scenario sarà inevitabile che si riparli di nuove e più consistenti migrazioni forzate.

Si tratta di previsioni inquietanti che ci ricordano come la guerra, “empia e sciagurata” di cui parla Erasmo, è un fenomeno che mette in connessione tutti e in tutte le parti del mondo. Se proprio non si può rimanere indifferenti per questioni di coscienza certamente ci si deve preoccupare per i risvolti eminentemente pratici che toccano l’umanità, tutta l’umanità, in ogni angolo del mondo.

Raffaele Callia

Le ferite ancora aperte delle troppe guerre dimenticate

Photo by Boudewijn Huysmans

Sono settimane che i quotidiani, i telegiornali, i talk show, i social network offrono l’osceno spettacolo della guerra in Ucraina. Veniamo letteralmente tempestati, giorno dopo giorno, da immagini che continuamente ci ricordano le ferite aperte di un conflitto nel cuore dell’Europa; un conflitto che ha già prodotto milioni di sfollati e profughi, migliaia di morti e distruzione, con danni materiali e morali i cui effetti si protrarranno per moltissimi anni.

La ferita aperta in Ucraina non è tuttavia l’unica a livello globale. Esistono conflitti purtroppo dimenticati in tante altre parti del mondo, come ricorda il portale www.conflittidimenticati.it, gestito dalla Caritas Italiana e da Pax Christi, e come viene illustrato nei periodici rapporti tematici, l’ultimo dei quali realizzato in collaborazione con Famiglia Cristiana, Avvenire e il Ministero dell’istruzione, dal titolo “Falsi equilibri” (pubblicato dalle edizioni San Paolo).

Un recente dossier con dati e testimonianze pubblicato dalla Caritas Italiana, dal titolo “Pace fragile”, ci ricorda come in Sierra Leone, dopo 20 anni dalla fine formale della guerra, le ferite siano ancora aperte; a dimostrazione del fatto che la pace stabile e duratura è tutt’altro che la conseguenza logica dei soli accordi tra le parti. Come dire che, accanto a una “pace formale” (spesso provvisoria) ci deve essere necessariamente una “pace sostanziale”, che si basa su effettive condizioni di giustizia e riconciliazione fra tutte le parti in causa.

In questo senso si espresse anche Paolo VI, in occasione della Giornata mondiale della pace celebrata il 1° gennaio del 1975: «La pace dev’essere “fatta”, dev’essere generata e prodotta continuamente; essa risulta da un equilibrio instabile, che solo il movimento può assicurare e che è proporzionato alla velocità di esso. Le istituzioni stesse, che nell’ordine giuridico e nel concerto internazionale hanno la funzione ed il merito di proclamare e di conservare la pace, raggiungono il loro provvido scopo se esse sono continuamente operanti, se sanno in ogni momento generare la pace, fare la pace».

A tale riguardo il dossier dal titolo “Pace fragile” pone bene in luce come se è vero che in Sierra Leone, dopo 20 anni dal processo di pace, la guerra guerreggiata possa dirsi sostanzialmente cessata, le cause che hanno determinato il conflitto e le violenze (che hanno perfino visto arruolati i bambini soldato) non si sono spente del tutto. Persiste una povertà diffusa, nel contesto di un Paese con istituzioni ancora deboli e contrassegnate dalla corruzione, in un quadro di ingiustizia sociale che mina alla base l’equilibrio raggiunto con la “pace formale”.

Le parole di mons. Giorgio Biguzzi, vescovo della diocesi di Makeni (in Sierra Leone) all’epoca del conflitto, suonano ancora molto attuali, se si pensa a quanto sta avvenendo in Ucraina, ma anche in Sudan, in Libia, in Iraq e nello stesso Afghanistan: «Come la guerra non avviene per generazione spontanea, ma c’è chi ne è padre o madre, così è per la pace: bisogna volerla, se si esprimono solo delle buone intenzioni e non ci si dà da fare, non avviene. Se ci sono situazioni di pace è perché c’è
gente che è convinta che bisogna esporsi per la pace».

Si tratta di considerazioni che dovrebbero indurci a ribaltare l’antico adagio. Non più  “Si vis pacem, para bellum” ma “Si vis pacem, para pacem”: se vuoi la pace prepara la pace; ogni giorno, a cominciare dal tuo cuore.

Raffaele Callia

Gli esiti della raccolta dei prodotti di prima necessità nella “settimana della solidarietà” a Carbonia

Volontari Caritas del Centro unico in servizio

Il Centro unico di raccolta e distribuzione viveri di Carbonia, servizio da diversi anni promosso dalle Caritas parrocchiali di Carbonia, ha organizzato per la Santa Pasqua una raccolta di prodotti di prima necessità per predisporre dei pacchi destinati alle famiglie indigenti della città. Nel mese di aprile le famiglie assistite sono state in tutto 127, con un intervento che ha visto beneficiarie circa 300 persone. Dal 26 marzo al 10 aprile, nelle parrocchie Beata Vergine Addolorata, Gesù Divino Operaio, Cristo Re, San Camillo, San Narciso, San Ponziano e Vergine delle Grazie, sono stati raccolti diversi prodotti che più rispondono alle esigenze mensili delle famiglie. Ogni parrocchia ha avuto il compito di raccogliere latte e zucchero, olio di semi, legumi e pasta, succhi di frutta, merendine, prodotti per l’igiene personale, ecc. Così facendo, è stato possibile destinare le offerte in denaro pervenute al Centro, per acquistare altri prodotti inseriti nei pacchi. A questa raccolta per la Santa Pasqua, si è unita come ogni anno anche la Scuola “Camilla Gritti”.

Di seguito la tabella con le tipologie e le quantità dei prodotti raccolti.

Prodotti Quantità
Bagnoschiuma/Shampoo 96
Biscotti/Merendine 173
Caffè da 250 gr.. 14
Carta igienica 7
Dentifricio 45
Detergente intimo/Saponi/Pannolini 73
Prodotti per la pulizia della casa 45
Detersivo per la lavatrice 17
Detersivo per i piatti 17
Farina/Polenta da 1 kg 99
Formaggi vari/Formaggini 2
Latte da 1 lt 275
Legumi vari 591
Marmellata/Nutella/Miele 2
Olio “Evo” da 1 lt 2
Olio di semi da 1 ly 56
Omogeneizzati da vasetto singolo 37
Colombe/Uova di Pasqua 5
Pasta da 500 gr 400
Passata di pomodoro in brick e in bottiglia da 1 kg/lt 22
Pomodori pelati da 400 gr 52
Riso da 1 kg 63
Sale 4
Carne in scatola 287
Tonno in scatola 97
Succhi di frutta in brick da 200 ml 460
Sughi vari e dadi 29
Tè e camomilla 5
Zucchero 108

Ai quali si sono aggiunti i prodotti acquistati

Prodotti Quantità
Detersivo per i piatti 228
Formaggio grana in pezzzo e grattugiato 294
Latte da 1 lt 864
Legumi in barattolo 384
Pasta da 500 gr 304
Zucchero 30

 

Servire gli ultimi senza sosta, lungo la strada della riconciliazione. Il messaggio del delegato regionale della Caritas per la Quaresima e la Pasqua

Nelle prime settimane del 2022 lo sguardo cominciava a proiettarsi verso un futuro di bramata “normalità”, dopo due anni di restrizioni e affanni causati dalla pandemia. Si cominciava a tirare un sospiro di sollievo dopo un periodo assai faticoso, durante il quale anche le Caritas diocesane della Sardegna sono state sottoposte a un impegno straordinario e a sollecitazioni nuove e continue. Tra la fine di febbraio e i primi di marzo di quest’anno, esattamente come due anni fa, ci siamo trovati a convivere con una nuova emergenza e nuove preoccupazioni; con la scoperta dolorosa di un nuovo conflitto nel cuore dell’Europa. Una nuova emergenza che è anzitutto umanitaria e morale, prim’ancora che geopolitica.
Di fronte a tante e tali preoccupazioni, dopo un così prolungato periodo di prova, vi è senz’altro il rischio di vivere una subdola tentazione: di gettare la spugna, di dire basta alle continue sollecitazioni derivanti dai problemi di tanti fratelli e sorelle che chiedono aiuto. Ecco che anche per i credenti arriva l’ora del grande interrogativo esistenziale: che significato ha tanta sofferenza? Perché siamo così impotenti di fronte a questo nuovo dolore? Dove trovo la forza per andare avanti, dopo così tante prove? Perché continuare a fare il bene, visto come vanno le cose nel mondo?
Sono interrogativi più che legittimi, che trovano una generosa accoglienza nella misericordia di Dio, nonostante i nostri molti dubbi e la nostra fragilità. Una qualche risposta ce la offre San Paolo, quando – rivolgendosi alla comunità dei Galati (6,9-10a) – esorta a non stancarsi mai «di fare il bene; se infatti non desistiamo a suo tempo mieteremo». Ebbene, chi opera nei servizi caritativi deve combattere tutti i giorni contro la diabolica tentazione di cessare di fare il bene: perché non si vedono subito i risultati; perché le cose non vanno come si vorrebbe; perché il male e i problemi sembrerebbero prevalere sul bene e sulle soluzioni necessarie.
In verità, la prospettiva di chi ha fede – ce lo ricorda Papa Francesco nel suo messaggio per questa Quaresima – non è quella di un dirigente aziendale, coi suoi business plan e i suoi sofisticati modelli matematici per la realizzazione di obiettivi da portare a compimento secondo le auspicate previsioni. La prospettiva di chi ha fede è quella sobria ed essenziale di un agricoltore, che si sforza pazientemente di seminare nonostante tutte le difficoltà e le intemperie, senza sapere quando sarà il tempo della mietitura. Una giusta provocazione per ricordarci che siamo tutti delle fragili creature e non il Creatore.
A noi il compito di metterci a disposizione nel servire i fratelli, costruendo la Pace come uomini e donne sempre desiderosi di perdonare e di chiedere perdono; sempre desiderosi di fare il bene: non nonostante tutto, ma proprio a partire dal tutto che quotidianamente siamo chiamati a vivere.

Raffaele Callia
Delegato regionale Caritas Sardegna