Papa Francesco festeggia i primi cinquant’anni di Caritas Italiana nell’Aula Paolo VI

Alcuni rappresentanti delle Caritas della Sardegna presenti all’udienza

Al prossimo 2 luglio saranno 50 anni. Mezzo secolo dalla nascita, fortemente voluta dall’allora pontefice e oggi santo Paolo VI, della Caritas Italiana: l’organismo pastorale della Chiesa italiana sorto con lo scopo di “promuovere – come si legge nel primo articolo del suo statuto -, anche in collaborazione con altri organismi, la testimonianza della carità della comunità ecclesiale italiana, in forme consone ai tempi e ai bisogni, in vista dello sviluppo integrale dell’uomo, della giustizia sociale e della pace, con particolare attenzione agli ultimi e con prevalente funzione pedagogica”.

Nonostante le difficoltà del momento presente, legate all’emergenza pandemica, non sono mancate le occasioni di incontro e riflessione per celebrare il giubileo delle Caritas in Italia. A cominciare dal momento di preghiera tenutosi venerdì 25 giugno, presso la Basilica di San Paolo fuori le mura, alla presenza – fra gli altri – del presidente di Caritas Internationalis, il cardinale Luis Antonio Gokim Tagle.

Sabato 26, presso l’Aula Paolo VI in Vaticano, i partecipanti alle celebrazioni del 50°, provenienti da varie parti d’Italia (ampia anche la delegazione dalla Sardegna), sono stati accolti in udienza da Papa Francesco, il quale, a conclusione di una mattinata in cui sono state proposte diverse testimonianze dai vari contesti regionali, ha rivolto un messaggio colmo di gratitudine per questi cinque decenni di servizio e di incoraggiamento per il futuro. Nel ringraziare anzitutto il Signore per questi primi cinquant’anni, Papa Francesco ha voluto indicare tre vie per proseguire il cammino, esortando a percorrerle con gioia: partire dagli ultimi, custodire lo stile del Vangelo e sviluppare la creatività.

Le tre vie indicate dal pontefice per proseguire nella testimonianza della carità

La prima strada suggerita da Francesco è dunque la via degli ultimi. “È da loro che si parte, dai più fragili e indifesi. Da loro. Se non si parte da loro, non si capisce nulla […]. La carità è la misericordia che va in cerca dei più deboli, che si spinge fino alle frontiere più difficili per liberare le persone dalle schiavitù che le opprimono”. Compito della Caritas è proprio questo: aiutare le Chiese locali a praticare questa misericordia, allargando i sentieri della carità ma tenendo sempre fisso lo sguardo sugli ultimi. Bisogna sempre partire dagli occhi del povero che abbiamo davanti. “Lì si impara – ha precisato Francesco –. Se noi non siamo capaci di guardare negli occhi i poveri, di guardarli negli occhi, di toccarli con un abbraccio, con la mano, non faremo nulla. È con i loro occhi che occorre guardare la realtà […] perché è la prospettiva di Gesù. Sono i poveri che mettono il dito nella piaga delle nostre contraddizioni e inquietano la nostra coscienza in modo salutare, invitandoci al cambiamento. E quando il nostro cuore, la nostra coscienza, guardando il povero, i poveri, non si inquieta – ha avvertito il Papa – fermatevi…, dovremmo fermarci: qualcosa non funziona”.

Una seconda strada indicata da Papa Francesco per proseguire nel servizio della testimonianza della carità è l’irrinunciabile via del Vangelo. Si tratta di una strada che diventa stile di vita: “lo stile dell’amore umile, concreto ma non appariscente, che si propone ma non si impone”. È lo stile dell’amore gratuito e disinteressato, che non cerca gloria e neppure ricompense; è lo stile della disponibilità e del servizio, che si abbassa fino alla spogliazione di sé stessi. È lo stile del Signore Gesù. La via del Vangelo è la strada maestra della carità inclusiva del tutto (per la persona tutta, integralmente considerata, e per tutte le persone, senza distinzioni di nessun genere). In questa prospettiva, ha sottolineato Francesco, la carità è inclusiva perché “non si occupa solo dell’aspetto materiale e nemmeno solo di quello spirituale. La salvezza di Gesù abbraccia l’uomo intero. Abbiamo bisogno di una carità dedicata allo sviluppo integrale della persona: una carità spirituale, materiale, intellettuale”. Basterebbe ricordarsi che Gesù è realmente presente in ogni povero, precisa il Papa, per evitare di cadere nella “tentazione, sempre ricorrente, dell’autoreferenzialità ecclesiastica”. Inoltre, la via del Vangelo è quella che permette alla testimonianza della carità di coniugare la misericordia con una non meno importante “parresia della denuncia”: “Essa – sottolinea Francesco – non è mai polemica contro qualcuno, ma profezia per tutti: è proclamare la dignità umana quando è calpestata, è far udire il grido soffocato dei poveri, è dare voce a chi non ne ha”.

La terza strada indicata dal Papa è quella via della creatività che fa riecheggiare la “fantasia della carità” di cui parlò vent’anni prima San Giovanni Paolo II, nella Lettera apostolica “Novo millennio ineunte”. “La ricca esperienza di questi cinquant’anni non è un bagaglio di cose da ripetere”, ha precisato  Francesco, ma “la base su cui costruire” per il futuro e rispetto a cui “lo Spirito Santo, che è creatore e creativo, e anche poeta, suggerirà idee nuove, adatte ai tempi che viviamo”.

Guardare al futuro significa vedere l’orizzonte con occhi giovani. Ed è proprio ai giovani che, in conclusione del messaggio, Papa Francesco ha chiesto di prestare attenzione: “Sono le vittime più fragili di questa epoca di cambiamento, ma anche i potenziali artefici di un cambiamento d’epoca. La Caritas può essere una palestra di vita per far scoprire a tanti giovani il senso del dono, per far loro assaporare il gusto buono di ritrovare sé stessi dedicando il proprio tempo agli altri. Così facendo la Caritas stessa rimarrà giovane e creativa, manterrà uno sguardo semplice e diretto, che si rivolge senza paura verso l’Alto e verso l’altro, come fanno i bambini”.

Dopo questi primi cinquant’anni bisogna dunque ricominciare a crescere. E per crescere, raccogliendo l’invito di Francesco, bisogna essere disposti a ritornare bambini.

Mons. Tarcisio Pillolla è tornato alla Casa del Padre

Papa Benedetto XVI con Mons. Pillolla

La mattina del 16 giugno 2021, mons. Tarcisio Pillolla, Vescovo emerito di Iglesias, è tornato alla Casa del Padre. La Diocesi di Iglesias, e con essa la Caritas diocesana, sono grati al Signore per il suo generoso servizio episcopale.

Nato a Pimentel l’11 luglio 1930 è stato ordinato sacerdote nella Basilica di Bonaria il 4 luglio 1954, dall’allora Arcivescovo di Cagliari Paolo Botto. Fu Mons. Botto, nel 1958, ad affidare al giovane don Tarcisio la direzione di “Orientamenti”, la testata diocesana, fondata all’indomani della chiusura del “Quotidiano sardo”. Insegnante di religione, vice parroco a San Lucifero, assistente dei maestri di Azione Cattolica, cappellano in alcune case di cura, con Monsignor Giuseppe Bonfiglioli diviene Cancelliere arcivescovile. Monsignor Giovanni Canestri lo vuole come Vicario generale e dopo pochi mesi (ai primi di maggio del 1986) lo propone a Giovanni Paolo II come Vescovo ausiliare. Viene ordinato Vescovo l’8 giugno 1986, nella basilica di Nostra Signora di Bonaria. Nel 1999 la nomina a Vescovo di Iglesias. Guiderà la Diocesi fino al 2007.

Manterrà sempre viva l’amicizia con la comunità diocesana di Iglesias, così pure il suo legame con la Caritas diocesana, alla quale non farà mancare parole di incoraggiamento e il generoso aiuto in momenti particolari, come ad esempio – lo scorso anno – in occasione della pandemia da Covid-19. Volendo sostenere le iniziative di aiuto  nei confronti delle tante famiglie colpite dalla crisi economica a seguito del confinamento forzato, Mons. Pillolla si prodigò per far giungere un aiuto concreto alle iniziative solidali delle Parrocchie della Diocesi, tramite la Caritas diocesana di Iglesias.

Cresce il lavoro minorile anche a causa della pandemia

Nel 1999 lo studioso Kevin Bales, uno dei massimi esperti mondiali sulla schiavitù contemporanea, pubblicò un volume dal titolo Disposable people. New Slavery in the global economy, tradotto l’anno seguente in italiano, per i tipi della Feltrinelli, col titolo I nuovi schiavi. La merce umana nell’economia globale. Le cifre che emergevano da quello studio descrivevano un mondo in cui una moltitudine silenziosa, troppo spesso costituita da bambini, lavorava quasi a costo zero per produrre la ricchezza e il benessere di pochi. Persone “usa e getta”, per riprendere il titolo del volume di Bales, frutto di quella che Papa Francesco chiamerebbe “cultura dello scarto”: una “cultura” che alligna nella società delle disuguaglianze crescenti e del divario tra chi ha troppo poco (una maggioranza crescente) e chi ha troppo (una minoranza sempre più risicata).

Malauguratamente in questi ultimi vent’anni le cose non sono migliorate, in modo particolare per quanto attiene il lavoro minorile. È quanto si desume in modo allarmante dal Rapporto dal titolo Child labour: 2020 global estimates, trends and the road forward (“Lavoro minorile: stime globali 2020, tendenze e percorsi per il futuro”), pubblicato congiuntamente dall’OIL (l’Organizzazione Internazionale del Lavoro) e dall’UNICEF in occasione della Giornata mondiale contro il lavoro minorile (12 giugno). I dati mettono purtroppo in luce una dura realtà: il progresso verso l’eliminazione del lavoro minorile non solo ha subito una battuta d’arresto, dopo i risultati incoraggianti tra il 2000 e il 2016, ma ha persino registrato una pericolosa regressione anche a causa della crisi economica generata dalla pandemia da COVID-19.

Il numero complessivo dei bambini occupati in attività che possono danneggiare la loro salute e il loro sviluppo psico-fisico e morale è salito a 160 milioni, con un aumento di 8,4 milioni negli ultimi quattro anni. Circa la metà del totale è costituito da bambini di età compresa tra i 5 e gli 11 anni. Ad aumentare dal 2016, in particolare, è il numero di bambini di età compresa tra i 5 e i 17 anni, con un incremento di ben 6,5 milioni. Si tratta di un incremento con velocità e intensità diverse, a seconda del contesto geografico: nell’Africa sub-sahariana, ad esempio, negli ultimi quattro anni, a causa dell’estrema povertà, delle misure insufficienti di protezione socio-sanitaria e di sicurezza alimentare e delle ricorrenti crisi socio-politiche, alla schiera dei lavoratori si sono aggiunti 16,6 milioni di bambini.

Anche in quelle realtà dove si erano registrati dei significativi progressi dal 2016 in poi, come l’America latina e l’Asia, la crisi economica determinata dalla pandemia ha provocato delle regressioni importanti. L’aumento del lavoro minorile causato dalla pandemia si spiega fondamentalmente per due ragioni: i minori introiti delle famiglie in condizioni economiche precarie a causa del confinamento (e dunque la necessità di incrementare il reddito familiare con ogni mezzo e impiegando lavorativamente tutti i componenti del nucleo) e l’abbandono scolastico dei minori – temporaneo o definitivo – causato dalla chiusura delle scuole e dall’impossibilità di seguire le attività previste con la didattica a distanza (per mancanza di dispositivi elettronici e/o l’assenza di connessione ad internet).

Il citato Rapporto dell’OIL e dell’UNICEF pone bene in luce come sia soprattutto il settore agricolo ad assorbire la quota del lavoro minorile (il 70 per cento, pari a 112 milioni), seguito dai servizi (20 per cento) e dall’industria (10 per cento). È triste constatare come quasi il 28 per cento dei bambini tra i 5 e gli 11 anni e il 35 per cento dei bambini tra i 12 e i 14 anni non vadano a scuola ma siano costretti in qualche modo a svolgere una mansione lavorativa per poter incrementare il reddito familiare. Il lavoro minorile si concentra in prevalenza nelle aree rurali ed è più diffuso tra i maschi.

A commento dei dati prodotti dal Rapporto il direttore esecutivo dell’UNICEF, Henrietta Holsman Fore, sottolinea come «stiamo perdendo terreno nella lotta contro il lavoro minorile e l’ultimo anno non ha reso questa lotta più facile. In questo secondo anno di confinamento a livello mondiale, con la chiusura delle scuole, l’interruzione delle attività economiche e la riduzione dei bilanci nazionali, le famiglie sono costretto a fare scelte disperate». È quanto sta avvenendo in Argentina, dove il 16 per cento delle ragazze e dei ragazzi tra i 13 e i 17 anni è costretto a lavorare, nonostante la legge vieti il lavoro fino ai 15 anni di età: la metà di quella quota ha cominciato a lavorare proprio durante la pandemia.

Per il direttore generale dell’OIL, Guy Ryder, si ha bisogno di un sistema di protezione sociale inclusivo, che permetta «alle famiglie di poter mandare i loro figli a scuola anche in un contesto di vulnerabilità e difficoltà economica. È essenziale aumentare gli investimenti nello sviluppo rurale e nel lavoro dignitoso in agricoltura». Per spezzare la catena di questa moderna schiavitù l’OIL e l’UNICEF, nell’Anno internazionale per l’eliminazione del lavoro minorile, chiedono: un’adeguata protezione sociale per tutti, comprese le prestazioni familiari universali; l’aumento degli investimenti a favore di un’istruzione di qualità e il ritorno dei bambini a scuola; la promozione del lavoro dignitoso per gli adulti, affinché le famiglie non debbano ricorrere al lavoro dei loro bambini per generare reddito familiare; porre fine agli stereotipi di genere e delle discriminazioni che hanno un impatto sul lavoro minorile; investimenti in sistemi di protezione dell’infanzia.

Raffaele Callia

All’ombra dell’ultimo muro, tra Haiti e Repubblica Dominicana

No, la stagione dei muri non è finita a Berlino nel 1989. Dal crollo di quel simbolo di divisione per eccellenza fra due mondi, due filosofie politiche e due stili di vita contrapposti (seppur mascherati da mille divergenze al proprio interno) sono cresciute a dismisura le barricate in diversi angoli del mondo: muri divisori che, senza scomodare in modo altisonante mondi, filosofie politiche e stili di vita diversi, semplicemente separano l’umanità in ricchi e poveri. Esistono mura in Brasile, per rimuovere dallo sguardo i derelitti delle favelas; così avviene anche a Lima, in Perù, dove una barriera divide i quartieri ricchi da quelli poveri. Si ergono mura ai confini tra Stati Uniti e Messico, per impedire l’arrivo dei migranti irregolari; così come al confine tra Serbia e Ungheria, tra Kenya e Somalia. Per non parlare poi dei muri che dividono palestinesi e israeliani nella Terra santa, dei muri con filo spinato che dividono spagnoli e marocchini nelle enclave spagnole (in terra marocchina) di Ceuta e Melilla e dei muri non visibili, ma molto efficaci, esistenti nel Mar Mediterraneo.

Recentemente, si va ad aggiungere a questo triste campionario il muro che la Repubblica dominicana sta erigendo ai confini con la poverissima Haiti, nell’isola di Hispaniola. A fine febbraio il presidente dominicano Luis Abinader aveva annunciato al Parlamento l’intenzione di erigere una barriera lunga oltre 370 chilometri (è da supporre costosissima), ufficialmente con l’intenzione di frenare l’entrata di migranti irregolari haitiani, il traffico di droga, il contrabbando e il furto di veicoli e di bestiame. Sembrava una boutade propagandistica e invece il progetto è diventato già esecutivo, con la realizzazione dei primi 23 chilometri, prevedendo per il futuro anche l’utilizzo di sensori di movimento, sistemi a raggi infrarossi e telecamere per il riconoscimento facciale. Stando a quanto riferisce la stampa latinoamericana, come ad esempio il venezuelano Latin American Herald Tribune, la recinzione, alta circa quattro metri, ha fondamenta in cemento ed è completata da filo spinato; il tratto più lungo «inizia sulle rive del Lago Azuei, il più grande di Haiti, e si snoda attraverso le colline aride che circondano la città dominicana di Jimani. Quell’area urbana – precisa il giornale – è la più vicina al valico di frontiera che si trova sull’autostrada che collega Santo Domingo a Port-au-Prince».

Le risposte della società civile e di gran parte dell’opinione pubblica dei due Paesi non si sono fatte attendere. I piani, infatti, sono stati criticati non solo dalle associazioni che si occupano di tutela dei diritti umani ma anche dagli stessi commercianti haitiani e dominicani. Si pone l’accento sul fatto che la recinzione intacca la libertà del commercio e rappresenta una minaccia per l’incolumità delle persone che quotidianamente attraversano i confini in cerca di lavoro, anche solo giornaliero. Inoltre, invece che unire le due comunità non farà altro che dividerle ulteriormente. Secondo l’agenzia di stampa britannica Reuters, che cita stime ufficiali del governo, nella Repubblica Dominicana, ben più prospera della vicina Haiti, risiede più di mezzo milione di immigrati haitiani (circa il 5% della popolazione complessiva) e sono decine di migliaia i figli nati in quel Paese.  Buona parte dei residenti non ha un regolare permesso di soggiorno.

Parlando di Haiti e dei suoi infiniti problemi è da segnalare anche una buona notizia. Il 22 maggio scorso il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha annunciato che i circa 55.000 rifugiati haitiani giunti fino a quel momento negli States non saranno espulsi e potranno beneficiare di uno status di protezione temporanea, che permetterà loro di vivere e lavorare legalmente per almeno altri 18 mesi. A questo proposito il Segretario per la sicurezza interna, Alejandro Mayorkas, ha dichiarato che «Haiti sta attualmente vivendo gravi problemi di sicurezza, disordini sociali, un aumento delle violazioni dei diritti umani, povertà paralizzante e mancanza di risorse di base, che sono esacerbate dalla pandemia COVID-19 […]. Dopo un’attenta considerazione, abbiamo stabilito che dobbiamo fare il possibile per sostenere i cittadini haitiani negli Stati Uniti fino a quando le condizioni ad Haiti miglioreranno in modo che possano tornare a casa in sicurezza».

Qualche segnale di speranza, per una popolazione destinata tristemente a vivere in una ininterrotta condizione di difficoltà e di oppressione.

Raffaele Callia

La pace, arte da insegnare e realizzare

Quando il desiderio di vedere realizzata la convivenza pacifica tra persone di diverse religioni diventa una missione di vita, ciò che si riesce a costruire può diventare quasi incredibile, addirittura imbarazzante, agli occhi di chi la pace non riesce neanche a immaginarla.

È ciò che è avvenuto in Israele, su una collina circondata dalla valle di Ayalon, scenario per secoli di diversi conflitti. Grazie all’intuizione di padre Bruno Hussar, religioso egiziano, di fede ebraica poi convertitosi al cristianesimo, l’idea di creare un luogo in cui ebrei e arabi potessero condividere la quotidianità si concretizzò nel Villaggio Neve ShalomWahat al Salam (Oasi di Pace in ebraico e in arabo). Fu così che nei primi anni ’70, su un terreno demilitarizzato dal 1967, posto a pari distanza da Gerusalemme, Tel Aviv e Ramallah, prese forma il Villaggio cooperativo israeliano; il cui nome, scelto dal domenicano Hussar, deriva da uno dei libri di Isaia (32,18): “Il mio popolo abiterà in un’oasi di pace”.

La guerra dei sei giorni (giugno 1967) fece emergere l’intricato groviglio delle conflittualità che tormentavano il Medio Oriente. Hussar osservava con amarezza che le parti in lotta “non vedono il volto dell’altro”, perché non interessati a farlo. Dunque, il desiderio di creare una realtà di coabitazione fraterna lo portò ad accogliere le prime famiglie, metà palestinesi e metà ebree, tutte di cittadinanza israeliana, che, dal 1977 hanno scelto di far studiare i propri figli insieme, non in scuole distinte per ebrei e arabi; in una dimensione fondata sull’uguaglianza, collaborazione e amicizia; realizzando di fatto una comunità di coesistenza sui generis, capace di aprirsi alle altre realtà che ambiscono a costruire un autentico dialogo.

Il fondatore, convinto che bisognasse creare e mantenere le condizioni per riuscire a vedere il “volto “dell’altro, pose le basi di un sistema educativo bi-linguistico (riconoscendo pari dignità ad arabo e ebraico) nell’asilo e scuola primaria. Attualmente, il 90% degli alunni della scuola primaria proviene da città e villaggi vicini. Sempre in un’ottica di tipo pedagogico, è stata creata la “Scuola per la pace”, interessante esperienza che, attraverso percorsi e progetti ad hoc, realizza seminari di educazione alla pace e sul tema della gestione del conflitto per giovani palestinesi ed ebrei. Un’ulteriore specifica formazione è garantita anche ai laureati che, intenzionati a proseguire il percorso di confronto entro i propri confini, frequentano corsi tenuti in alcune Università israeliane, tra cui Tel Aviv University, Haifa University.

Lo sforzo educativo che da più di quarant’anni porta avanti la scuola del Villaggio è certamente finalizzato a sviluppare l’identità di ciascun individuo mediante la scoperta della propria cultura, storia e tradizioni e, contestualmente, attraverso la conoscenza e il rispetto della cultura e della storia dell’altro popolo convivente. Si può comprendere l’efficacia di un sistema educativo di questo tipo nel vederlo ripreso in altre parti del mondo che allo stesso modo sperimentano, purtroppo, continui conflitti tra diversi gruppi etnici. Ancora oggi le famiglie che coabitano nella comunità (circa 70) sono fortemente convinte che le loro differenze (culturali, etniche e religiose) possano rappresentare un arricchimento sotto molti punti di vista, dimostrando nella pratica la fattibilità di una realtà sociale, culturale, e politica, fondata sulla reciproca accettazione, il rispetto e la cooperazione quotidiana, rimanendo allo stesso tempo fedeli alla propria identità. Non si ambisce ad avere un pensiero unico o gli stessi valori, ma si prova semplicemente a condividere tutto ciò.

Come raccontato da alcuni membri, all’interno del Villaggio non sono mancati i contrasti e i litigi perché «non è facile convivere nella differenza quando ognuno mantiene la propria identità, ma noi stiamo vivendo il conflitto invece di combatterlo con le armi». Una realtà di questo tipo può anche non essere compresa e anzi ostacolata. Si sono registrati infatti atti vandalici contro i residenti (come l’incendio doloso della Scuola per la pace il 31 agosto 2020), oppure proposte politiche avverse. Come evidenziato da alcuni abitanti, l’Oasi ha certamente i suoi limiti ma viene ancora oggi vista come un modello esemplare, meritevole di ottenere dei finanziamenti da parte dell’Unione Europea per alcuni progetti di educazione alla pace. È strutturata in maniera democratica; ogni anno, infatti, vengono eletti un segretario e una commissione che, in un’assemblea, con tutti i membri discutono le questioni relative al Villaggio. Oltre ai residenti, la comunità è frequentata anche dai volontari che collaborano concretamente e confluiscono nelle Associazioni di Amici di Neve ShalomWahat al Salam in diverse parti del mondo, a dimostrazione che il “folle sogno” di padre Bruno Hussar da decenni rende possibile la convivenza tra i figli di un’unica Terra e di un solo Padre.

Emanuela Frau

Il 50° di Caritas Italiana e la pandemia, nell’XI Convegno regionale Caritas

Se per ragioni di sicurezza lo scorso anno si era deciso di annullare il preventivato XI Convegno regionale, che avrebbe dovuto celebrarsi sabato 23 maggio 2020, quest’anno la Delegazione regionale Caritas della Sardegna ha deciso di proporre per lo meno la soluzione di un convegno in streaming, attraverso la diretta sul proprio canale YuoTube.

È così che, di comune accordo con tutte e dieci le Caritas diocesane della Sardegna e con il Vescovo delegato, si è voluto offrire alle Caritas parrocchiali un segno di vicinanza e di attenzione, rendendole partecipi, attraverso il canale YouTube, dei temi proposti nel Convegno di sabato 22 maggio 2021 dal titolo “Sfida globale, carità capillare. Verso i 50 anni della Caritas in Italia nel solco di uno straordinario cambiamento d’epoca”. Il canale YouTube non ha certamente sostituito il tradizionale Convegno, per tutto ciò che tradizionalmente lo connota: la gioia del ritrovarsi da varie parti della Sardegna, la bellezza di un saluto, di un abbraccio e di una chiacchiera amichevole, la ricchezza di un confronto personale e immediato per quanto viene offerto dai vari contributi. Si è trattato di una sorta di “surrogato”, ma almeno così è stato possibile non perdere l’opportunità di riflettere sul cinquantesimo di Caritas Italiana, come occasione di verifica rispetto al proprio operato di Caritas nelle parrocchie dell’Isola, e allo stesso tempo interrogarsi sui temi della pastorale della salute come parte integrante della testimonianza della carità.

Ecco perché si è pensato di non saltare anche quest’anno l’appuntamento, dando testimonianza di vicinanza alle nostre Caritas in un momento di prolungata prova (come la pandemia) e di straordinaria occasione celebrativa (il 50° di Caritas Italiana). Anzi proprio questi due aspetti, il 50° e la pandemia, hanno rappresentato degli elementi importanti di riflessione, sviluppati sapientemente dai relatori durante il Convegno, al quale hanno preso parte da remoto alcune centinaia di persone.

L’approfondimento sul primo dei due temi, dopo un momento di preghiera iniziale a cura del vescovo delegato, mons. Giovanni Paolo Zedda, è stato affidato a don Francesco Soddu, direttore della Caritas Italiana, con una relazione dal titolo “Verso quale Caritas per la Chiesa e la società in Italia, dopo mezzo secolo di storia”. Nell’intervento di don Francesco è emersa la necessità di un cambiamento comunitario del nostro stare insieme, che parta proprio da quegli “anticorpi della solidarietà” che in questi mesi hanno lasciato intravedere diverse potenzialità in favore di una cittadinanza attiva e responsabile.

L’esame del secondo tema, sempre sotto il profilo pastorale, è stato affidato a don Massimo Angelelli, direttore dell’Ufficio nazionale per la pastorale della salute della Conferenza Episcopale Italiana, per mezzo di una relazione dal titolo “La testimonianza della carità nella cura integrale della salute della persona e le sfide della pandemia”; una relazione che ha permesso di insistere sul tema della testimonianza della carità nella cura integrale della salute della persona: un aspetto di grande rilevanza, visto che, proprio durante la pandemia, è stata soprattutto la dimensione relazionale ad essere messa a dura prova.

Il protagonismo delle Caritas parrocchiali ha avuto un momento significativo nello spazio a loro dedicato, con la testimonianza di alcune realtà di Caritas individuate dalla diocesi di Tempio-Ampurias (Caritas parrocchiale Nostra Signora delle Grazie di Palau), Cagliari (Caritas parrocchiali Madonna delle Grazie di Decimoputzu, Santa Vittoria di Sarroch, Spirito Santo di Cagliari, Santa Maria di Siurgus Donigala) e Bitti (Caritas parrocchiali San Giorgio Martire e Santissimo Salvatore). Proprio quest’ultima realtà, attraverso un video e le parole del parroco, don Tottoni Cossu, ha permesso di fare memoria della tragedia determinata dall’alluvione del novembre scorso, con il suo bilancio di morte e distruzione ma anche con i segni luminosi e carichi di speranza cristiana manifestati con tanti gesti concreti di vicinanza e solidarietà, anche grazie all’impegno delle Caritas della Sardegna.

Le ferite mai chiuse della Terra Santa

“Seguo con grandissima preoccupazione quello che sta avvenendo in Terra Santa. In questi giorni, violenti scontri armati tra la Striscia di Gaza e Israele hanno preso il sopravvento, e rischiano di degenerare in una spirale di morte e distruzione. Numerose persone sono rimaste ferite, e tanti innocenti sono morti. Tra di loro ci sono anche i bambini, e questo è terribile e inaccettabile. La loro morte è segno che non si vuole costruire il futuro, ma lo si vuole distruggere. Inoltre, il crescendo di odio e di violenza che sta coinvolgendo varie città in Israele è una ferita grave alla fraternità e alla convivenza pacifica tra i cittadini, che sarà difficile da rimarginare se non ci si apre subito al dialogo”. Con queste parole, pronunciate dopo il Regina Coeli di domenica 16 maggio, Papa Francesco ricorda le nuove violenze esplose nella Terra Santa: le ultime di una lunga serie, in un territorio che sembra non poter conoscere un destino diverso.

A riaccendere le polveri, questa volta, sono stati anzitutto gli scontri esplosi a Gerusalemme durante il Ramadan, a seguito del dispiegamento di militari israeliani lungo la Spianata delle Moschee (dove diversi fedeli si sono rifiutati di rispettare delle nuove regole sulla sicurezza, giudicate umilianti) e nel quartiere storico di Sheikh Jarrah, dove le autorità israeliane hanno espropriato una trentina di famiglie palestinesi, proseguendo la politica di colonizzazione coatta con cui da decenni si sta garantendo la progressiva spoliazione del popolo palestinese.

A prevalere, ancora una volta, è la logica della violenza che suscita altra violenza, così come purtroppo accade in Terra Santa da diversi decenni; in un momento politico di estrema fragilità per entrambe le parti (israeliana e palestinese), con gli affanni del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che non ha i numeri per costituire un nuovo governo nonostante tre elezioni nell’arco di poco tempo, e la leadership in forte declino di Abu Mazen quale presidente dell’Autorità nazionale palestinese. Una logica della violenza che si amplifica a dismisura, come sempre accade, in una situazione di vuoto di potere interno e di sostanziale indifferenza da parte della comunità internazionale. Ecco perché da Gerusalemme il conflitto si è esteso in altre zone, spostandosi in particolare nella Striscia di Gaza e lungo i confini con i territori dello Stato israeliano.

Proprio a Gaza, un territorio tra i più densamente popolati al mondo, con i suoi 378 chilometri quadrati e una popolazione di oltre 2 milioni di persone per lo più in condizioni di precarietà socio-economica e sanitaria e sottoposte a un rigido embargo da parte di Israele, si stanno verificando pesanti bombardamenti in risposta al lancio di missili da parte di Hamas. Violenza – appunto – che suscita altra violenza, con il risultato che a pagare il prezzo più alto è come sempre la popolazione civile. Distruzione, morte, odio e vendetta sembrano le uniche parole in grado di connotare la coabitazione di diverse espressioni culturali e religiose in quel territorio così importante, il quale dovrebbe poter avere un destino diverso da quello a cui si sta assistendo.

Purtroppo, come ha scritto la stampa più attenta alle vicende mediorientali, a parte i rituali appelli al dialogo e al cessate il fuoco, per la crisi attuale non si è attivata in tempi rapidi una mobilitazione diplomatica al fine di rilanciare il processo di pace israelo-palestinese. Lo stesso Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha faticato non poco nel produrre una dichiarazione comune, giudicata da molti assai tiepida. A ben vedere, la via diplomatica rimane sempre la via maestra; in realtà l’unica per evitare non solo altro spargimento di sangue ma anche che il conflitto degeneri e si estenda geograficamente, tenuto conto dei vincoli e degli interessi internazionali in gioco. Sono troppe le risoluzioni dell’Onu rimaste lettera morta e sono troppe le responsabilità internazionali ignorate.

Da parte sua, Caritas Italiana rimane sempre in contatto con Caritas Jerusalem, con cui collabora da anni con interventi sanitari nella Striscia di Gaza, gemellaggi e altro, garantendo il proprio sostegno in favore degli aiuti umanitari e dell’assistenza di base. A ricordare la significativa presenza dei cristiani in quella Terra, spesso trascurata e invece così importante nei processi di mediazione tra le parti in conflitto. Una presenza, come ha ricordato in un recente appello il Patriarca latino di Gerusalemme, Mons. Pierbattista Pizzaballa, capace di essere voce profetica di fronte alle gravi ingiustizie e alla violenza di questi giorni: “Lo sgombero forzato dei palestinesi dalle loro case a Sheikh Jarrah – scrive Mons. Pizzaballa – è anche una violazione inaccettabile dei diritti umani più fondamentali, il diritto alla casa. È una questione di giustizia per gli abitanti della città vivere, pregare e lavorare, ognuno secondo la propria dignità; una dignità conferita all’umanità da Dio stesso. In merito alla situazione a Sheik Jarrah – prosegue il Patriarca –, facciamo eco alle parole dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani che ha detto che lo stato di diritto è “applicato in modo intrinsecamente discriminatorio”. Questo è diventato un punto di forza principale tra le crescenti tensioni a Gerusalemme. La questione oggi non è un problema di controversia immobiliare tra parti private. È piuttosto un tentativo guidato da un’ideologia estremista che nega il diritto di esistenza di una persona nella propria casa”.

È dunque urgente che si ritorni a parlare attraverso la lingua della diplomazia, con una mediazione onesta e disinteressata, che sappia far tacere al più presto le armi e richiamare tutte le parti in causa alle proprie responsabilità giuridiche internazionali.

Raffaele Callia

50 anni di Caritas in Italia e in Sardegna

Il 2 luglio 2021 le Caritas che sono in Italia celebreranno il loro cinquantesimo anniversario. Infatti, è con il decreto n. 1727/71 del 2 luglio 1971 che la Conferenza Episcopale Italiana approvò il primo statuto della Caritas Italiana, quale organismo pastorale costituito “al fine di promuovere, anche in collaborazione con altri organismi, la testimonianza della carità della comunità ecclesiale italiana, in forme consone ai tempi e ai bisogni, in vista dello sviluppo integrale dell’uomo, della giustizia sociale e della pace, con particolare attenzione agli ultimi e con prevalente funzione pedagogica” (articolo 1).

La nascita della Caritas in Italia avvenne dopo che, un anno prima, San Paolo VI sciolse la Pontificia Opera Assistenza (POA), a suo tempo istituita da Papa Pio XII (il 15 giugno 1953) per favorire gli interventi umanitari della Santa Sede. La Caritas, raccogliendone il testimone, fu promossa sulla spinta del Concilio Vaticano II e con il precipuo compito di animare tutta la comunità a una testimonianza della carità, con una prevalente prospettiva di tipo educativo. In questi cinquant’anni non sono certo mancati gli interventi concreti di tipo assistenziale (in Italia come all’estero) ma è altrettanto vero che non è venuto meno, anzi è cresciuto progressivamente, l’impegno della Caritas nei confronti della promozione della carità a livello comunitario, con un’azione incisiva nel coinvolgere la società civile e le istituzioni, anche attraverso l’osservazione rigorosa delle cause della povertà e nella definizione di precise linee di azione in ambito legislativo.

L’ampio cammino percorso dalla Caritas in Italia abbraccia naturalmente il percorso specifico delle Caritas in Sardegna, in una regione in cui non è mai mancata la testimonianza ecclesiale della carità, come ricordano gli stessi Atti del Concilio plenario sardo: “in Sardegna, lungo i secoli, la Chiesa ha espresso mirabili esempi di uomini e donne che hanno manifestato il volto amoroso di Dio attraverso opere di servizio ai poveri. In particolare gli ultimi due secoli hanno visto sorgere nell’Isola diverse di queste opere, specialmente per iniziativa di fondatori e fondatrici di istituti religiosi, che hanno tessuto una rete di servizi, i quali, ancora oggi, offrono risposte significative ai molteplici bisogni della popolazione e danno testimonianza dell’amore preferenziale di Dio per i poveri” (cfr. CES, La Chiesa di Dio in Sardegna all’inizio del terzo millennio. Atti del Concilio Plenario Sardo, 2000-2001).

Tratteggiare i cinquant’anni dell’esperienza delle Caritas in Sardegna, anche per sommi capi, significa inevitabilmente intercettare le diverse tappe del cammino ecclesiale di quel periodo. Nelle comunità ecclesiali della Sardegna, come peraltro nel resto delle diocesi italiane, negli anni Settanta lo sforzo che si fece fu anzitutto quello di una progressiva conversione da una prassi di tipo squisitamente assistenziale (potremmo dire di prossimità nell’emergenza) ad un modello di tipo prevalentemente promozionale (ancor meglio di promozione umana integrale), con un’attenzione sempre più crescente nei confronti della “prevalente funzione pedagogica”, finalizzata ad animare tutta la comunità (e non solo parti di essa) in ordine alla testimonianza della carità.

Nascono sotto questo impulso, anche nelle diocesi sarde, le Caritas diocesane presiedute dai rispettivi vescovi e la cui direzione viene affidata anzitutto a sacerdoti che, per ovvie ragioni, avevano in precedenza diretto e seguito in prima persona il servizio presso le Opere di assistenza diocesane. A loro si devono i primi passi nella transizione alla nuova proposta pastorale della carità, dopo lo scioglimento della POA. Furono loro a promuovere le prime azioni che hanno visto alcune raccolte in denaro e in beni, soprattutto in occasione di alcune calamità, fra cui il terremoto in Campania, e il coinvolgimento di giovani volontari in azioni concrete legate alle stesse emergenze. Si tratta di premesse importanti che favoriranno la nascita e la crescita di un volontariato ecclesiale maturo e consapevole, che si arricchirà negli anni successivi della significativa esperienza dei primi obiettori di coscienza in servizio civile sostitutivo a quello militare.

Anche a livello regionale nascono così i primi coordinamenti e si gettano le basi per un lavoro che, assunto istituzionalmente dalla Delegazione regionale Caritas, permetterà di affiancare sul versante della carità il servizio della Conferenza Episcopale Sarda.

Di pari passo con le sfide assunte a livello generale, la Caritas anche in Sardegna si pone in sintonia con l’evoluzione culturale e normativa dell’Isola. In questo senso si spiega il contributo dato nella interlocuzione all’interno della Chiesa, della società e nel dialogo con le istituzioni politiche. In questa prospettiva si pone il costante contributo dato anche in seno all’elaborazione culturale che ha condotto alla produzione di nuove norme sul contrasto delle povertà. Una realtà, dunque, che è cresciuta nel tempo e i cui tratti identitari, oltre a quanto previsto nello stesso statuto della Caritas Italiana (all’ art. 21), sono ampiamente delineati nel già citato – e forse non ancora del tutto valorizzato – Concilio Plenario Sardo degli anni Novanta. Una realtà di Chiesa capace di esprimere una misericordia nei confronti delle tante storie di fragilità umana mai disgiunta dall’anelito verso la giustizia sociale.

Sabato 8 e 15 maggio 2021 l’iniziativa “Dona la spesa”

Al via da domani, anche a Iglesias, l’iniziativa solidale “Dona la spesa”, promossa da Supermercati di Sardegna in collaborazione con diverse Caritas diocesane dell’Isola, nell’ambito dell’iniziativa nazionale proposta dalla Coop.

Nei giorni sabato 8 maggio e 15 maggio 2021 nei punti vendita aderenti i cittadini che lo desiderano potranno fare una spesa solidale per le persone bisognose, riempiendo il “carrello della solidarietà”: i beni di prima necessità verranno poi ritirati dai volontari e dagli operatori delle Caritas diocesane coinvolte.

Un’iniziativa ancora più significativa nel difficile periodo di pandemia, in cui le Caritas diocesane sarde hanno moltiplicato gli sforzi per aiutare le persone in difficoltà e che fa seguito ad altre iniziative solidali promosse dai Supermercati di Sardegna in collaborazione con la Delegazione regionale Caritas.

La spesa solidale potrà essere effettuata, ad Iglesias, nei seguenti punti vendita aderenti:

  • Via Oristano 18
  • Via Cattaneo, s/n – fronte Ospedale CTO

 

Pandemia, confinamento e opinione degli italiani

Il 26 aprile scorso l’Istituto nazionale di statistica ha pubblicato gli esiti di un’indagine dal titolo “Comportamenti e opinioni dei cittadini durante la seconda ondata pandemica (12 dicembre 2020-15 gennaio 2021)”. Realizzata attraverso l’intervista telefonica di un campione sufficientemente rappresentativo della popolazione italiana composto da individui dai 18 anni in su, utilizzando la tecnica di rilevazione CATI (selezionando  il campione da un collettivo per il quale fosse presente un recapito telefonico), tale indagine ha inteso esplorare il clima familiare, i sentimenti e le opinioni degli italiani nella fase più recente dell’emergenza sanitaria, effettuando un confronto con il primo periodo di confinamento.

Il primo dato emergente dall’indagine Istat è che durante la seconda ondata epidemica sono state confermate le difficoltà familiari affrontate nella fase iniziale, seppur con intensità minore rispetto al primo confinamento. Se nell’aprile del 2020 il 56,9% si era espresso con giudizi negativi e soltanto il 20,6% positivamente, nel corso della seconda ondata il primo dato è calato al 44,7% mentre il secondo è salito al 34,1% (il 21,2% si è espresso in termini neutri), ad indicare un atteggiamento in cui convivono simultaneamente un profondo malessere per il disagio provato ma allo stesso tempo anche la speranza in un cambiamento positivo. Molto probabilmente, come rileva l’Istat, “l’abitudine a convivere con la situazione determinata dall’emergenza sanitaria e la minore rigidità delle regole di comportamento anti contagio” hanno contribuito a ridurre lo stato d’animo, le sensazioni e le emozioni di carattere eminentemente negativo, avvertiti in modo significativo nella prima fase del confinamento.

Per quanto concerne il clima familiare, la convivenza spesso forzata a causa delle limitazioni negli spostamenti non ha prodotto particolari effetti, rimanendo sostanzialmente inalterato (per l’86,3% degli intervistati) anche in questo difficile momento. Ciononostante, rileva l’Istat, le relazioni tra conviventi “sono invece peggiorate per il 3,2% della popolazione (2,6% ad aprile 2020). Si tratta di un milione di persone per le quali la pandemia ha messo a dura prova la convivenza all’interno delle mura domestiche”. Rispetto a ciò sono abbastanza noti gli episodi conflittuali, non di rado anche molto violenti (che hanno visto protagoniste in particolare diverse donne), la cui gravità si è accresciuta proprio a causa del confinamento forzato. D’altra parte, però, appare particolarmente significativa la quota di intervistati (28,3%) che ammettono di essere riusciti a incrementare il tempo dedicato ai propri familiari, di pari passo con una drastica riduzione del tempo dedicato agli incontri con gli amici (il 61,4% ha dichiarato di vedere gli amici con minore frequenza). Le regole imposte anche durante la seconda ondata pandemica hanno di fatto “ridotto gli spostamenti e in generale le attività fuori casa. Ciò ha significato anche riorganizzare i propri tempi e ridistribuirli tra le varie attività […]. Sono soprattutto le persone fino ai 44 anni d’età – precisa l’Istat – ad aver ricavato più tempo da dedicare alla famiglia, in particolare gli uomini tra i 35 e i 44 anni (47,8%). Per effetto dello smart working e della sospensione di alcune attività lavorative ciò è stato possibile per alcuni lavoratori, più che per altri”.

L’altra faccia della sospensione lavorativa è ovviamente associata all’incertezza economica e alle difficoltà conseguenti per un numero significativo di italiani. Più di una persona su 10 ha dichiarato di aver dovuto fare ricorso ad aiuti economici (prestiti, sussidi pubblici o altro) per superare le difficoltà durante la seconda ondata epidemica e circa un quinto della popolazione italiana non è riuscito a far fronte agli impegni economici. Tra gli occupati, rileva l’Istat, “sono soprattutto i lavoratori del Commercio ad avere avuto bisogno di aiuti (21,8%): il 4,7% ha chiesto prestiti bancari, il 17,0% aiuti pubblici”. Tutto ciò ha determinato – e continua a provocare – delle importanti fragilità riguardo alla condizione economica dei nuclei familiari, la quale risulta in peggioramento per un cittadino su cinque.

Raffaele Callia

 


Il rapporto è consultabile integralmente al seguente link:
https://www.istat.it/it/archivio/257010