L’idea del progetto “Orti solidali di comunità”, che vede la diocesi di Iglesias impegnata anche nel settore dell’agricoltura sociale, è nata nel 2015, dopo che la Caritas diocesana ha aderito alla campagna di sensibilizzazione “Una sola famiglia umana, cibo per tutti: è compito nostro”, lanciata da Papa Francesco e da Caritas Internationalis. Il progetto è divenuto nel tempo un luogo aperto di risposta a un disagio concreto, favorendo una riappropriazione di sé in termini di orientamento di vita e professionale per tante persone: uomini e donne, italiani e stranieri. A tutti, questa esperienza ha fornito l’opportunità di vivere con gli altri e a contatto con la natura in una maniera del tutto diversa, riscoprendo consapevolezza, capacità e talenti. Grazie al sostegno dell’8xmille della Chiesa cattolica il progetto ha rafforzato la propria valenza sociale, ambientale e inclusiva.
Gianluca Frau riporta la propria esperienza di tutor tecnico all’interno del progetto, sottolineando l’enorme beneficio che un’attività di questo tipo può generare. “L’idea è quella di coniugare il bisogno delle persone che, per svariati motivi, hanno necessità di ritrovare la serenità e un giusto orientamento di vita, con un’attività concreta nell’ambito dell’agricoltura biologica”.
Che cosa ti ha convinto ad accettare la proposta ricevuta a suo tempo?
Posso mettere a disposizione le competenze acquisite in passato, come tecnico che coordina un lavoro di squadra, con delle finalità che non sono ovviamente legate solo alla produzione agricola, quanto alla qualità delle relazioni che si creano tra le persone coinvolte. Ciò che può dare un progetto di questo genere non è misurabile soltanto da un punto di vista quantitativo. La proposta, certamente con molto sacrificio da parte di tutti i soggetti coinvolti, può generare risultati significativi. Bisogna essere il più possibile realistici, affidandosi alla Provvidenza e mettendo in conto anche gli imprevisti. L’aneddoto più significativo può essere dato dalla curiosa richiesta di alcuni beneficiari che avrebbero voluto recintare un fazzoletto di terra, in modo da coltivarlo per una personale produzione, sconfessando di fatto l’obiettivo del progetto, che mira a creare relazione e cooperazione tra i beneficiari. Anche l’impazienza di vedere il raccolto in breve tempo ha certamente giocato a sfavore nell’esperienza di alcuni.
Ci sono stati dei cambiamenti generati dal progetto?
Mi ha sicuramente gratificato vedere negli occhi delle persone coinvolte la gioia e lo stupore davanti ai primi germogli degli ortaggi; questo le ha certamente ripagate del sacrificio. Oltre ai beneficiari, l’orto ha ospitato anche altri collaboratori occasionali, nel periodo della raccolta delle olive e delle patate. Posso dire di essere stato spettatore di una sorta di “miracolo”: mi ha davvero commosso vedere una terra, che fino a poco tempo prima non veniva valorizzata adeguatamente, animarsi grazie al servizio di tante persone. In questi anni sono passati anche solo per curiosare tanti uomini, donne e anche gruppi di bambini, che entusiasti hanno saputo stupirsi e creare relazioni significative.
Emmanuel Anane, proveniente dal Ghana e presente in Italia da una quindicina d’anni, racconta la sua persona esperienza negli Orti.
Come sei venuto a conoscenza di questo progetto?
Sono stato segnalato dal Centro d’ascolto per stranieri “Il Pozzo di Giacobbe”. Mi avevano detto che cosa potevo fare nel terreno con altre persone che stavano lì prima di me. Mi sembrava una cosa buona per tenermi impegnato e fare qualcosa di utile per me e per gli altri.
È la prima volta che lavori nel settore dell’agricoltura?
No, non è la prima volta. Ho già lavorato la terra nel mio Paese e anche qui, a Iglesias, in un’azienda agricola dove avevo già svolto delle attività simili a queste.
Stai apprendendo cose nuove?
Sì, nel mio Paese gli agricoltori fanno altre cose nei campi; lavorano diversamente. Le cose che si coltivano e anche le attrezzature che si usano nei campi sono diverse.
Pensi che l’integrazione tra italiani e stranieri passi anche attraverso il lavoro?
Sì, certamente. Lavorare insieme aiuta a stare meglio; nel progetto ci sono anche altri stranieri. È un modo per sentirsi utili e poter fare qualcosa non solo per sé stessi ma anche per gli altri.
Intervista di Emanuela Frau