Il conflitto tra Hamas e Israele, innescato il 7 ottobre dall’attacco terroristico alla popolazione israeliana al confine con la striscia di Gaza, ha raggiunto proporzioni catastrofiche, con il rischio di un allargamento ingovernabile verso altri scenari, fra cui i territori della West Bank (Cisgiordania), il Libano, la Siria, l’Iran, l’Iraq e il Golfo di Aden. Dall’ottobre scorso sono oltre 27.000 le vittime tra i palestinesi (di cui il 70% è costituito da donne e bambini), mentre tra gli israeliani sono più di 1.200. I feriti sono decine di migliaia, mentre gli sfollati palestinesi sono quasi 2 milioni (una cifra pari a circa il 90% della popolazione di Gaza), costretti a vivere in condizioni umanitarie estremamente precarie.
Va ricordato che il conflitto in atto da ottobre scorso è solo l’ultimo episodio in ordine di tempo di una lunga catena di violenza che da decenni insanguina il Medio Oriente. Una scia di sangue che affonda le proprie radici alla fine del XIX secolo nella nascita del sionismo da un lato e del nazionalismo palestinese dall’altro (vale a dire in un periodo storico in cui oltre il 90% delle persone che vivevano nella Palestina ottomana era araba) e che ha la sua fase principale a partire dalla guerra del 1948, anno in cui fu proclamata la nascita dello Stato d’Israele, cui farà seguito una serie di conflitti più o meno intensi (fra cui la guerra di Suez del 1956, la guerra dei sei giorni del 1967 e la guerra del Kippur del 1973).
Due anni prima della nascita dello Stato d’Israele, il teologo e filosofo austriaco (poi naturalizzato israeliano) Martin Buber si oppose al tentativo del movimento sionista di dar vita a una realtà statuale ebraica, consapevole che tutto ciò avrebbe portato a uno scontro sanguinoso tra ebrei e arabi presenti in Palestina. Egli, infatti, insieme ad altri intellettuali di un vasto movimento per la pace, riteneva che l’unica strada da percorrere fosse quella di dar vita a un unico Stato binazionale, in cui far convivere ebrei e arabi. In altri termini, l’indipendenza di una parte non doveva essere guadagnata a discapito dell’indipendenza dell’altra.
Negli ultimi decenni, di pari passo con una politica di occupazione progressiva da parte israeliana dei territori palestinesi, la comunità internazionale si è orientata per lo più verso la creazione di due Stati indipendenti, uno israeliano e l’altro palestinese, sebbene sia del tutto evidente la prospettiva decrescente di tale possibilità. Di fatto, l’occupazione dei coloni israeliani, dopo molti decenni, è divenuta una situazione permanente difficilmente reversibile. Di fronte a ciò, non sono pochi fra gli stessi israeliani coloro i quali considerano tale occupazione come un vero e proprio regime.
D’altra parte, chi ha avuto la possibilità di viaggiare nei territori della Cisgiordania occupati dai coloni israeliani, ha avuto modo di vedere con i propri occhi la frequente negazione dei diritti politici e civili a discapito di oltre 2 milioni e mezzo di persone. Vessazione, umiliazione e annessione sono divenute le parole d’ordine di una strategia progressiva in aperta violazione del diritto internazionale e di innumerevoli risoluzioni delle Nazioni Unite sistematicamente disattese. Ad un’estensione territoriale della sovranità israeliana sui territori della Cisgiordania e di Gerusalemme Est non ha corrisposto un’estensione dei diritti di cittadinanza dei palestinesi che vi abitano, creando le basi per un sistema istituzionale di disuguaglianza tra israeliani e palestinesi. In questo modo se anche non ci sarà una completa annessione da parte di Israele si creeranno comunque delle aree amministrative isolate in una condizione permanente di tensione e violenza; come di fatto sta già avvenendo.
Sono quasi 700.000 i coloni ebrei che vivono in Cisgiordania e a Gerusalemme Est e molti altri vivono sia negli insediamenti situati vicino alla cosiddetta Linea Verde (quella tracciata in occasione dell’armistizio del 1949) sia in altre zone della Palestina (compreso Gaza), rendendo praticamente impossibile la creazione di uno Stato palestinese geograficamente compatto e unitario.
Di fronte a tale realtà, difficilmente reversibile, molti analisti ritengono che se anche gli israeliani non annettessero formalmente la Cisgiordania, questa sia già oggi funzionalmente parte di Israele. Il che significa allontanare definitivamente dall’orizzonte politico il paradigma guida che dal 1937 (vale a dire dall’epoca della Commissione Peel) ha orientato l’obiettivo di una soluzione a due Stati per risolvere il conflitto israelo-palestinese. In altri termini, per tali analisti una separazione tra israeliani e palestinesi è oramai impossibile, mentre resterebbe da seguire la strada o di una Confederazione o di uno stato democratico binazionale.
In questa prospettiva si staglierebbe all’orizzonte un cammino per nulla lineare, pieno di tornanti e certamente accidentato. Tuttavia, si tratterebbe dell’unico sentiero (di “insocievole socievolezza” direbbe Kant) realisticamente percorribile per garantire la sopravvivenza pacifica degli israeliani e dei palestinesi, attraverso cui garantire diritti di piena cittadinanza degli uni e degli altri, oltre che il rispetto del più basilare diritto umano oggi ampiamente violato.
Con la diplomazia e l’arte della mediazione tutto rientra nel novero del possibile. In questa prospettiva il rispetto del diritto internazionale rappresenta una delle condizioni essenziali per costruire le opportunità propizie e favorire la pace. Finché le armi non taceranno nulla di tutto ciò sarà possibile.
Raffaele Callia