Ai primi di febbraio di quest’anno Papa Francesco ha visitato il Sud Sudan insieme all’arcivescovo anglicano di Canterbury, Justin Welby, e al moderatore della Chiesa di Scozia, Jim Wallace. Una visita importante in una terra martoriata dai conflitti etnici e dalle divisioni – alimentate anche dalla guerra per il petrolio -, con oltre 3 milioni di sfollati interni, di cui oltre 30.000 nella sola regione di Juba.
Il mese scorso un ennesimo tentativo di colpo di Stato ha fatto precipitare nuovamente nel caos il Paese africano, con uno scontro aperto che vede contrapposti da un lato l’organizzazione paramilitare denominata “Forze di Supporto Rapido” (RSF), guidata dal generale Mohammed Dagalo; dall’altro le forze dell’esercito ufficiale guidato dal capo di stato maggiore Abdel Fattah Abdelrahman al-Burhan, nonché capo di Stato de facto dopo il golpe dell’ottobre 2021. Gli scontri nella capitale, Khartoum, hanno fatto registrare alcune centinaia di vittime fra i civili e hanno allertato la comunità internazionale, dando vita a imponenti evacuazioni di cittadini stranieri, fra cui quasi 150 italiani.
A permettere un clima di stabilità al Paese non è bastata la rivoluzione democratica del 2019, che aveva chiuso i conti con la leadership di Omar Hasan Ahmad al-Bashir, accusato dalla Corte penale internazionale dell’Aia di genocidio, a causa delle violenze inferte alle minoranze non arabe del Darfur. Il processo democratico e l’accordo di transizione verso un governo civile, infatti, sono stati ampiamente compromessi dagli stessi militari che oggi si fronteggiano su campi opposti, i quali, a loro volta, sono influenzati da interferenze che provengono dall’estero, che si poggiano su rilevanti interessi economici e che hanno tutto l’interesse a gettare benzina sul fuoco. Fra le interferenze più evidenti quella del vicino Egitto, ma anche della Libia del controverso Khalifa Haftar (nei giorni scorsi scorsi ricevuto a Roma dal presidente del Consiglio Meloni), del Ciad, degli Emirati Arabi Uniti e della stessa milizia russa Wagner.
Di fronte all’affanno diplomatico delle Nazioni Unite alcuni Paesi della regione facenti capo all’Unione africana, tra cui Gibuti, stanno provando a chiedere il cessate il fuoco e a percorrere la strada di una mediazione tra le parti in conflitto. Nel frattempo, giungono notizie allarmanti dalla regione occidentale del Sudan, il Darfur, ove sono ripresi gli scontri armati tra la componente araba e quella non araba, richiamando alla memoria il drammatico scontro genocida dei primi anni del 2000, con oltre 300.000 morti a causa della violenza e oltre 400.000 per carestia e malattie. La guerra scoppiata a Khartoum, pertanto, rischia di riaccendere pericolosamente il conflitto nel Darfur e far divampare una guerra civile su vasta scala.
A causa dei conflitti in atto gli operatori umanitari non riescono a portare avanti il proprio lavoro, con un sistema sanitario che è quasi al collasso. Tutto ciò rischia di trasformare questo ennesimo scenario di caos militare e politico in un’ennesima crisi umanitaria, in un Paese con oltre 40 milioni di abitanti e un’infinità di problemi che non potranno essere risolti finché la politica non riprenderà il proprio posto facendo finalmente tacere le armi.
Raffaele Callia