In un’intervista realizzata per “Le Monde” da Anne Chemin, a settembre dello scorso anno, lo storico francese Emmanuel Blanchard, professore a Sciences Po Saint-Germain-en-Laye e autore del volume Histoire de l’immigration algérienne en France (La Découverte, 2018), ha ricordato come «dagli anni Trenta in poi, e soprattutto dopo il 1945, questa violenza della polizia si è manifestata ogni volta che i “colonizzati” manifestavano a Parigi o nelle province. La polizia non li trattava come cittadini, ma come “nativi”. Il 28 maggio 1952, l’unico morto della mobilitazione contro il generale Ridgway è stato un algerino, colpito da un proiettile; nel 1953 la polizia ha aperto il fuoco sulla marcia non violenta del movimento di Messali Hadj, uccidendo 7 manifestanti, senza dimenticare, naturalmente, il massacro del 17 ottobre 1961. Nel Dopoguerra, la polizia ha trattato i “musulmani francesi” d’Algeria in modo ancora più duro di come l’esercito, nel 1891, ha brutalizzato gli operai di Fourmies o altrove».
La reazione violenta messa in atto in questi giorni da migliaia di persone riversatesi in diverse città francesi, in seguito all’uccisione di Nahel Merzouk, un diciasettenne ucciso a Nanterre (nella banlieue Nord-Ovest di Parigi) da un agente di polizia durante un controllo stradale, ha posto nuovamente sotto i riflettori il tema dell’integrazione incompleta nelle periferie francesi e della repressione sistematica da parte delle forze dell’ordine, in un crescendo di prese di posizione da parte di certi gruppi politici che non fanno altro che rafforzare l’esclusione di alcune categorie marginalizzate sulle quali pesano difficoltà sociali ed economiche, oltre che la discriminazione culturale.
Gli scontri di questi giorni insegnano questo: ci si occupa di un fenomeno – anche e soprattutto dal punto di vista mediatico – soltanto quando questo è divenuto un problema, possibilmente un’emergenza di vaste proporzioni, con tutto il corollario di violenze e situazioni drammatiche. Tuttavia, si tratta di un approccio alle questioni che impedisce di vedere laddove bisognerebbe guardare attentamente, ovverosia alle radici profonde di questo malessere.
Come non ricordare quanto avvenne nella notte tra il 27 e il 28 ottobre 2005, quando nella periferia di Clichy-du-Bois due minorenni, ritenendo di essere inseguiti dalle forze dell’ordine a seguito di un intervento di alcuni poliziotti, si rifugiarono in una centralina elettrica dove trovarono la morte. Anche in quel caso vi furono numerose protese: il disagio, il malessere che aveva covato inascoltato per così tanto tempo nelle periferie urbane si trasformò in una drammatica esplosione di violenza. L’adozione di provvedimenti tesi a ripristinare la sicurezza e l’ordine pubblico anche in quel caso non sortirono alcun effetto se non quello di acutizzare ulteriormente lo scontro tra le forze dell’ordine e i manifestanti e di propagarlo anche in altre zone della Francia. In quell’occasione il grande storico Jacques Le Goff si domandò se ci sarebbero mai state queste moderne jacqueries se la politica avesse favorito a suo tempo una programmazione in termini di inclusione sociale, di sostegno all’occupazione, di cura della vivibilità nelle periferie urbane. Certamente si sarebbe potuto stemperare il potenziale di violenza se il ministro degli Interni francese dell’epoca, divenuto poi presidente della Repubblica, il neo-gollista Nicolas Sarkozy, non avesse usato l’espressione piuttosto colorita di “feccia” da spazzare con un’idropulitrice a proposito dei manifestanti.
Oggi la storia si ripete tale e quale, ma le radici profonde di questo malessere rimangono ben piantate in un terreno tutt’altro che fertile. Un terreno nel cui sottosuolo covano ideologie pericolose alimentate dal rancore e dall’odio di cittadini che si sentono declassati, che vivono in habitat malsani e con un destino minato dalla povertà e dall’esclusione.
Raffaele Callia