Aurora Fonnesu, da poche settimane nuova referente dell’Area Immigrazione della Caritas diocesana di Iglesias, dopo che per alcuni anni – e a più riprese – tale impegno è stato generosamente assunto da Caterina Moro, che continua il proprio impegno come operatrice all’interno dello stesso servizio, descrive come l’Area Immigrazione della Caritas diocesana favorisca un servizio di sportello per i cittadini stranieri tramite il Centro di ascolto “Il Pozzo di Giacobbe”. Dalla testimonianza emerge come molti stranieri presenti nel territorio diocesano vivano una condizione di sostanziale, oltre che formale, invisibilità, di cui pochi paiono occuparsi.
Gennaio 2020. In uno dei comuni della nostra Diocesi incontro la signora Carmen (nome di fantasia). La signora ci racconta della sua famiglia, di sua sorella malata e di come sia diventata un’immigrata irregolare. Sono tutti troppo spaventati per lasciare che esca di casa, anche solo per chiedere aiuto. L’unico posto in cui si reca regolarmente è l’ospedale, dove riceve parte delle cure che le servirebbero perché, essendo irregolare, non può essere iscritta al sistema sanitario nazionale. Carmen ci riferisce l’angoscia con cui vivono questa situazione. In assenza di rapporti familiari nel proprio Paese d’origine, se dovesse essere rimandata a casa sarebbe sola e totalmente incapace di provvedere a se stessa a causa della sua malattia.
Febbraio 2020. Altro comune, stessa Diocesi, un’altra donna. Si tratta di Valentina (altro nome di fantasia): è una giovane donna, madre di due bambini in età prescolare. Da circa due mesi passa molte notti insonni poiché non sa quale sarà l’esito della sua richiesta di rinnovo del permesso di soggiorno. La sua famiglia, come tante altre, aveva dei permessi per motivi umanitari ed ora vive nella totale incertezza per il futuro.
Sono circa 562 mila le persone irregolari stimate in Italia al 1° gennaio 2019 (dati Fondazione Ismu – XXV Rapporto sulle migrazioni). Sono persone che vivono la propria esistenza in un limbo: pur essendo in vita, formalmente non esistono per la nostra società. Quanti dovrebbero essere rimpatriati non lo sono quasi mai e coloro che non dovrebbero essere rimpatriati si ritrovano ulteriormente emarginati. La mancanza di un riconoscimento di questi individui, già vulnerabili per tanti versi, genera sentimenti contrastanti e finisce quasi inevitabilmente per disumanizzarli. Il non avere un permesso di soggiorno, infatti, preclude loro la possibilità di avere la carta d’identità (oltre alla tessera sanitaria, unitamente a un medico di base di riferimento). Un fatto a cui un cittadino comune potrebbe dare poca importanza. Ma se si considera anche solo l’aspetto semantico, ci si accorge del fatto che tutto ciò finisce per annullare la stessa dignità di queste persone. Non è un caso che la carta d’identità richiami etimologicamente all’uguaglianza di tutti i cittadini (da latino identĭtas-atis: medesimo, perfettamente uguale) e al loro riconoscimento come individui. In un periodo in cui si sono inseguiti facili slogan e risposte semplicistiche sul tema delle migrazioni, è importante fermarsi a riflettere su quest’argomento così delicato e importante. Nel vedere e riconoscere l’identità dell’altro, da qualunque parte del mondo provenga, riconosciamo la nostra stessa identità.
Aurora Fonnesu