Mentre parla, un lieve sorriso sulle labbra, quasi a nascondere imbarazzo e timidezza. Ma gli occhi non possono celare un velo di malinconia. Marisol (la chiameremo così per questioni di riservatezza), ha lasciato la sua terra, il Venezuela, circa un anno fa per venire in Italia. Fuggiva da una situazione molto difficile, non solo per lei, ma per tutto il popolo del suo Paese: disagio sociale, crisi economica, e soprattutto una fortissima inflazione hanno investito questa terra tanto bella ma altrettanto martoriata, dalle scelte di chi la governa e dagli scenari internazionali.
Il suo è stato un viaggio veloce – sapeva già come ci si doveva muovere – ma non per questo meno rischioso. «Ho lasciato la mia città passando il confine con la Colombia, il 26 febbraio 2019, a piedi. Sono più o meno 2 chilometri. In 15 minuti ero a Cucutà e poi da lì fino a Bogotà. Da qui ho preso un aereo per Madrid, dove sono arrivata il 27 febbraio dello scorso anno, per poi ripartire immediatamente per Roma. Da lì, lo stesso giorno, sono giunta a Cagliari, verso le 10 di sera». Ma a Cagliari, in realtà, è rimasta solo una notte, ospite di una sua amica venezuelana. La sua vera destinazione era una cittadina mineraria dell’Iglesiente che, da qualche anno, era divenuto il luogo di residenza della signora Consuelo (anche questo è un nome di fantasia). «La signora Consuelo è stata molto importante per me; la conobbi tramite Facebook e si offrì subito di aiutarmi. Mi ospitò qualche giorno nella sua casa e poi mi accompagnò negli uffici della Caritas diocesana, ad Iglesias», da dove è iniziato un determinante percorso di accompagnamento e consulenza giuridica per l’ottenimento del permesso di soggiorno. La signora Consuelo riveste un ruolo importante anche dopo, perché «è stato grazie a lei che ho potuto lavorare per qualche tempo». Marisol, prima di trasferirsi definitivamente nella cittadina mineraria, dove tuttora vive e lavora, è stata ospitata nella Casa di prima accoglienza Santo Stefano della Caritas diocesana. Qui ha trascorso un periodo di circa due mesi e mezzo.
Alla domanda su come si è trovata nella Casa sorride, quasi ride, in un misto di imbarazzo e riconoscenza: «All’inizio mi sentivo smarrita, impaurita… Ero preoccupata, quasi terrorizzata, perché avevo dovuto lasciare mia figlia in Venezuela, con mia madre. Certo, sapevo che con lei era in buone mani, ma era terribile pensare a quanto era lontana, che non potevo abbracciarla e stare con lei… Inoltre, lì alla casa Santo Stefano non conoscevo nessuno. E poi c’era un’altra questione: non conoscevo neanche una parola di italiano!». Ma giorno dopo giorno, stando a stretto contatto con le persone che in un modo o nell’altro ruotavano attorno alla casa, «mi rendevo sempre più conto che tutti mi volevano bene, e cercavano, chi in un modo chi in un altro, di aiutarmi, di confortarmi, di farmi sentire a mio agio, di farmi ridere – e ne avevo davvero bisogno! -, di farmi sentire come se fossi a casa». Perché è proprio questa la parola che Marisol, commossa, usa: “casa”. «È stato davvero come stare in una grande famiglia, mi sono sentita coccolata e, soprattutto, protetta. Non mi sentivo più un uccellino impaurito bagnato dalla pioggia, come mi aveva descritto un giorno una persona della casa Santo Stefano riferendosi all’impressione che le avevo fatto appena ero arrivata lì». Marisol ricorda un po’ tutti: i volontari e le volontarie, i ragazzi del Servizio civile, con i quali ha instaurato un bel rapporto di amicizia, con gli ospiti della casa, e con tutti gli altri. «Don Roberto, per esempio, il responsabile della casa, ogni volta che ci ritrovavamo a pranzo e c’era anche lui, non perdeva occasione di chiedermi come stavo, e di scherzare magari cercando di parlare un po’ di spagnolo!».
Ma la barriera della lingua? Nella risposta non c’è esitazione: «Cercavo di imparare quanto più possibile, ripetevo, chiedevo. E poi ho anche ricevuto qualche lezione di italiano da una persona della Casa che conosceva la mia lingua. Sono state vere e proprie lezioni, che mi sono state molto utili. Soprattutto per la caparbietà e la pazienza nello spiegarmi che in italiano si dice “Vado”, e non “Bado”».
Qual è stata la cosa più importante durante la permanenza nella Casa Santo Stefano? «Certamente avere un tetto, un letto e due pasti al giorno – oltre la colazione – è stato importante, ma, ripeto, la cosa davvero importante che ho ricevuto è stato il supporto psicologico, il sentirmi ben voluta e accettata. E la cosa straordinaria, ancora oggi che non sono più là, è che tutto questo è avvenuto spontaneamente, senza che quasi si rendessero conto di quel che stavano facendo». Più in generale, i rapporti con la Caritas sono stati ottimi: «con il direttore, con la segretaria, con le persone del Centro d’ascolto per stranieri. Tutti mi hanno offerto supporto psicologico e morale, soprattutto nel primo periodo».
Che cosa mi mancava più di tutto, in quei giorni? «Mia figlia! Ho già detto che era un tormento il fatto che lei non fosse con me. Lo era di giorno, ma ancora di più la notte, quando la sentivo al cellulare e poi, una volta chiusa la chiamata, non potevo evitare di piangere. Continuavo a chiedermi quando l’avrei riabbracciata, ma era sempre lei che mi dava la forza per resistere: dovevo farcela, dovevo superare tutto per lei. E poi, dopo alcuni lavori saltuari, a luglio ho firmato un contratto di lavoro: anche se solo per tre mesi, con rinnovo fino a dicembre, i soldi che ho guadagnato mi sono serviti per pagare il viaggio per l’Italia a mia figlia e a mia madre, che doveva necessariamente accompagnarla». Da quando c’è lei qui con me è tutto diverso.
Quanti anni ha tua figlia? «Sette anni!», risponde con orgoglio, mentre lei fa capolino e saluta, con un faccino sorridente e vivace. Quando sei riuscita a far venire tua figlia in Italia? «Ai primi di dicembre».
Hai ottenuto il permesso di soggiorno, giusto? «Sì, è tutto a posto».
Come ti trovi nella cittadina dove vivi? Hai nostalgia della Casa Santo Stefano? E del Venezuela? «Non mi trovo male, però è un periodo molto difficile, perché adesso non sto lavorando, è difficile trovare un lavoro – soprattutto nel pieno di questa emergenza sanitaria –, non solo per me: è difficile per tutti. Nostalgia della casa Santo Stefano? Sì, certamente, e delle persone che durante la mia permanenza mi sono state vicine. Del Venezuela ho sempre nostalgia, come potrei non averne, è la mia terra».
Ci tornerai? «Sì, quando la situazione economica e politica cambierà e migliorerà ritornerò. Ma portandomi nel cuore le persone che ho conosciuto in Italia».
Intervista a cura di Giampaolo Atzori
Casa di prima accoglienza Santo Stefano