“Esprimo la mia preoccupazione per l’aggravarsi della situazione securitaria nella Repubblica Democratica del Congo. Esorto tutte le parti in conflitto ad impegnarsi per la cessazione delle ostilità e per la salvaguardia della popolazione civile di Goma e delle altre zone interessate dalle operazioni militari. Seguo con apprensione anche quanto accade nella capitale, Kinshasa, auspicando che cessi quanto prima ogni forma di violenza contro le persone e i loro beni. Mentre prego per il pronto ristabilimento della pace e della sicurezza, invito le autorità locali e la comunità internazionale al massimo impegno per risolvere con mezzi pacifici la situazione di conflitto”.
Sono le parole di Papa Francesco, pronunciate all’udienza generale del 29 gennaio scorso. Lo stesso giorno in cui era previsto un incontro tra i presidenti della Repubblica Democratica del Congo e del Ruanda, con la mediazione del presidente del Kenya; incontro poi saltato poiché le relazioni tra i due Paesi si sono interrotte.
Quanto sta avvenendo nella parte orientale della Repubblica Democratica del Congo, nella regione di Kivu Nord, in particolare nella città di Goma (oltre 700.000 abitanti), è nient’altro che il seguito di una lunga catena di conflitti e violenze che si sta perpetuando da decenni in quell’area e che affonda le sue radici nel terribile genocidio avvenuto in Ruanda nel 1994 (tra l’etnia dei Tutsi e quella degli Hutu), in cui persero la vita non meno di 800.000 persone.
In quella stessa area sono presenti decine di milizie armate che controllano il territorio e – causa principale dei conflitti in corso – sfruttano illegalmente i minerali di cui il sottosuolo è assai ricco, in particolare oro, tungsteno e soprattutto tantalio e niobio (due minerali noti come coltan), i quali risultano strategici per la produzione delle moderne tecnologie come computer e smartphone. A spadroneggiare è in particolare il gruppo armato denominato “M23”, il quale, nato nel 2009 come milizia in difesa dei tutsi residenti nel Nord Kivu ritenuti minacciati dalle autorità congolesi, è accusato di avere stretti legami con il Ruanda, a cui sembrerebbe garantire lo sfruttamento dei minerali di cui questo Paese non è in possesso. Come sostengono diversi analisti, grazie a questi commerci illegali il Ruanda riuscirebbe ad essere il secondo esportatore mondiale di coltan e di altri minerali, nonostante ne sia sprovvisto nel proprio territorio.
Dopo dieci anni di attività a bassa e media intensità, il gruppo M23 ha espanso il suo controllo e ha recentemente conquistato la città di Minova (a 45 chilometri da Goma), provocando lo sfollamento di almeno mezzo milione di persone e portando a 4,5 milioni il numero di sfollati in tutta l’area del Kivu. Donne in attesa, bambini e anziani stanno vivendo in condizioni di estrema precarietà, con accesso limitato all’acqua, al cibo e ai servizi essenziali.
A fronte di questo drammatico scenario risulta particolarmente controverso l’accordo che l’Unione Europea ha stipulato con il Ruanda il 19 febbraio dello scorso anno per l’approvvigionamento di minerali e che – come già sottolineato – questo Paese africano non possiede nel proprio territorio, risultando incoerente rispetto ai molteplici pronunciamenti a favore di un commercio trasparente e tracciabile dei minerali rari. Inoltre, va precisato che l’Unione Europea in questi ultimi anni ha finanziato l’esercito ruandese per decine di milioni di euro.
L’accordo di cooperazione sulle materie prime stipulato tra la UE e il Ruanda il 19 febbraio 2024 viene ampiamente criticato dalla Repubblica Democratica del Congo e da quanti ritengono esista una contraddizione profonda tra le conseguenze sostanziali alla firma di quell’atto e i valori formali propugnati dall’Unione Europea, in particolare in tema di difesa dei diritti umani.
Raffaele Callia