È fuor di dubbio che, a causa della pandemia, gli ultimi due anni siano stati particolarmente difficili. Oltre agli aspetti squisitamente sanitari, con le terribili cifre dei morti e delle persone costrette ai ricoveri d’urgenza nelle terapie intensive, si sono sommati quasi subito gli effetti sul piano economico, con la contrazione dell’occupazione e della produzione del reddito, e su quello sociale: sono cambiati gli stili di vita e diversi ambiti della quotidianità.
La pandemia ha anche inciso sul versante della mobilità umana, proprio perché a causa delle restrizioni imposte dalla situazione sanitaria i flussi migratori sono stati ampiamente ridimensionati a livello mondiale rispetto agli anni passati. In Italia, complice la pandemia, negli ultimi due anni la popolazione residente ha subito una significativa diminuzione: sono diminuite le nascite, sono aumentati i decessi e anche il saldo migratorio non è stato in grado di compensare le perdite. Non è un caso che si parli, per l’Italia, di un vero e proprio “inverno demografico”.
In Sardegna, stando ai dati Istat, la popolazione in questi ultimi due anni è scesa sotto il milione e seicentomila residenti. È evidente come anche in Sardegna il saldo migratorio, che pure aveva contribuito a rendere stabile in passato il bilancio demografico, non riesca più a compensare il saldo naturale, ininterrottamente negativo da oltre un decennio (oltre 10mila unità in meno il dato registrato nel corso del 2020); segno assai chiaro di una tendenza in atto, di carattere strutturale, anche nella demografa isolana.
I dati sugli stranieri residenti nell’Isola alla fine del 2020 pongono in luce una popolazione pari a 49.322 unità (incidenza del 3,1% sul totale della popolazione residente in Sardegna), di cui la maggior parte di sesso femminile (52,7%). Si tratta di una presenza concentrata per oltre il 70% tra le province di Cagliari e Sassari. La Sardegna si posiziona in fondo alle graduatorie regionali per numero di residenti stranieri (insieme alla Basilicata, al Molise e alla Valle d’Aosta), ospitando circa l’1,0% di tutti gli immigrati residenti in Italia. Un aspetto quantitativo che conferma come la Sardegna non sia particolarmente attrattiva rispetto ad altri contesti regionali.
Alla fine del 2020 i cittadini non comunitari titolari di permesso di soggiorno erano 25.293, di cui oltre la metà concentrati nella provincia di Cagliari. Escludendo dal calcolo i possessori di un permesso di lungo periodo o una carta di soggiorno, più della metà dei permessi sono stati rilasciati per motivi di famiglia (51,5%), un quarto per motivi di lavoro, il 16,9% per protezione internazionale.
I romeni continuano a collocarsi in vetta alla graduatoria delle collettività straniere, con un notevole distacco dalla collettività senegalese e con una quota pari al 22% di tutta la popolazione immigrata residente in Sardegna, di cui ben oltre la metà di sesso femminile (69,3%). La romena e le altre collettività provenienti dal continente europeo, fra cui l’ucraina, la tedesca e la polacca, assorbono poco meno di un terzo dei cittadini stranieri residenti in Sardegna. Seguono le collettività africane, provenienti in particolare dal Senegal e dal Marocco (rispettivamente la seconda e la terza collettività nella graduatoria regionale); quelle asiatiche, in particolare la cinese e la filippina; le collettività provenienti dal continente americano, segnatamente dall’America Latina (specie dal Brasile). Infine, risultano pochissimi i residenti provenienti dall’Oceania, per lo più dall’Australia.
L’affacciarsi della crisi sanitaria, con gli effetti conseguenti al confinamento, ha influito in modo determinante sulla produzione di reddito da lavoro anche per gli stranieri; soprattutto per quelle categorie professionali (ad esempio nell’ambito dell’attività di commercio, anche ambulante, e della ristorazione) prive di particolari tutele e che non hanno potuto godere da subito delle varie forme di sostegno messe in campo per far fronte alle diverse difficoltà contingenti. In Sardegna l’occupazione straniera assorbe il 4,5% del totale (la media nazionale è del 10,2%), con una quota prevalente di personale legato a un rapporto di lavoro subordinato (74,9%). I cittadini stranieri che lavorano nell’Isola sono occupati in gran parte nel settore dei servizi (90,7%). Di essi una quota preponderante è impiegata nel lavoro domestico e di cura delle persone anziane, malate e più in generale non autosufficienti. Nel settore dei servizi assumono un peso rilevante anche le persone occupate nel commercio, mentre gli occupati nel settore agricolo assorbono solamente il 5,9%.
Raffaele Callia